“Good night and good luck“: buona notte e buona fortuna. Così si salutavano i londinesi prima di andare a dormire, durante gli anni bui della Seconda Guerra Mondiale; le bombe dei nazisti non davano pace e gli abitanti della capitale britannica non sapevano se all’alba avrebbero incontrato le stesse facce, o se i vicini di casa avrebbero rivisto la loro. Una frase come tante tra le celebri, ma che descrive bene il midollo spinale di Dying Light, il nuovo survival horror griffato Techland che da qualche giorno fa capolino sugli scaffali fisici e digitali di PS4, Xbox One e PC. La presenza di infetti e l’utilizzo di armi di fortuna per farne mattanza non deve ingannare, perché ciò che abbiamo tra le mani non è un seguito diretto di Dead Island (per quello attendiamo il lavoro di Yager Development). Anche se l’embrione è comune, bastano poche ore di gioco per realizzare come Dying Light vada a parare altrove, con un approccio meno da parco giochi e più da survival puro, all’interno di un mondo open world estremamente diverso da quello tropicale. Eh già, perché qui c’è tanto di quel parkour da tenere a bada per parecchio l’hype nei confronti di Mirror’s Edge 2; e poi perché il ciclo giorno/notte cambia totalmente la prospettiva, giacché con le tenebre fanno capolino creature talmente furibonde da angosciare profondamente anche l’adulto più vaccinato. Buona notte e buona fortuna, per l’appunto.
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SARÀ LA MUSICA CHE GIRA INTORNO
Qualcuno, a proposito delle musiche di Dying Light, ha pescato parallelismi coi temi dei film più celebri di John Carpenter. Vero, anzi verissimo, tanto che mi spingo personalmente a dire che da lungometraggi come 1997: Fuga da New York i ragazzi di Techland hanno tratto ispirazione non solo dal punto di vista musicale, mescolando sapientemente le tipiche atmosfere claustrofobiche da città militarmente circoscritta con esigenze narrative magari un po’ scontate, ma che fanno da collante al nostro peregrinare. Il nostro alter ego, un certo Kyle Crane, viene paracadutato in zona alla ricerca di un file prezioso, senza il quale non è possibile studiare una cura all’infezione e salvare il mondo. Crane si trova presto tirato per la giacchetta da una parte all’altra, tra fazioni in lotta tra loro e sopravvissuti che cercano di rimanere in vita senza diventare cibo per zombie. Il dipanarsi della matassa avviene senza grandi sussulti, ma comunque con sufficiente scioltezza da mantenere sempre alto l’interesse nello scoprire cosa accadrà da lì a breve, fino ai titoli di coda.
[quotedx]La calma delle ore diurne è solo apparente[/quotedx]Più che la storia, a tenere incollati allo schermo è il fascino generale che suscita la città. La calma delle ore diurne è solo apparente, tanto che bastano quattro passi in strada per accorgersi di come convenga sempre sfruttare la verticalità degli edifici e – ove possibile – muoversi per tetti e sporgenze, anche perché molta dell’oggettistica utile è nascosta in casse non sempre visibili. Fortunatamente, il nostro uomo ha in dote il cosiddetto Istinto di Sopravvivenza, che gli permette di marcare nel raggio di qualche metro gli elementi attivi dello scenario. Se vi dedicherete con costanza alla cosa – come ho fatto io – scoprirete come l’esplorazione meticolosa possa fare la differenza tra un uomo vivo e un aspirante zombie, viste le grandi possibilità di personalizzazione dell’equipaggiamento che Dying Light porta in grembo. Alla stessa stregua di Dead Island e Dead Rising, ma in modo assai più funzionale in un’ottica tipicamente survival (laddove le armi da fuoco scarseggiano), possiamo dedicarci al crafting e quindi creare oggetti di fortuna con i quali integrare quelli già forniti “chiavi in mano”; non manca la possibilità di prepararsi medicamenti e pozioni di ogni tipo, con la consapevolezza che le risorse sono poche e vanno investite con oculatezza.
Vitale, letteralmente, è la distribuzione di punti in tre alberi di crescita separati. Il primo è chiamato Sopravvivenza ed è tipicamente legato alla raccolta di XP da ottenere a suon di missioni portate a termine, primarie o secondarie poco importa. Gli altri due, chiamati Agilità e Forza, hanno due indicatori dedicati nella parte alta dello schermo che si riempiono mano a mano che mostriamo le nostre abilità da tracciatore (come viene chiamato chi pratica parkour) o che sfondiamo crani di infetti come se non ci fosse un domani; in entrambi i casi, ogni tot di esperienza accumulata ci viene elargito un punto da spendere per ottenere abilità attive o passive. Sebbene nulla vieti di grindare (e quindi si possa teoricamente entrare in possesso di tutti i talenti presenti), sappiate che la crescita degli indicatori di Agilità e Forza avviene assai lentamente, e che la regola generale di un survival come Dying Light dice che è sempre meglio evitare lo scontro diretto con uno zombie, perché fare il “ganassa” qualche volta paga in puri termini di XP, ma spesso mette il nostro Crane in guai seri, soprattutto quando calano le tenebre.
IL BABAU VIEN DI NOTTE
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SONO UNO ZOMBIE!
Al di là della possibilità di aprire la propria partita ad altri tre amici (coi quali gironzolare allegramente), Dying Light prevede anche una sorta di multiplayer competitivo in cui un utente può trasformarsi in uno zombie cacciatore e invadere le partite altrui, portando istantaneamente le tenebre nel mondo di gioco. In quel caso, l’invaso può unirsi ad altri compagni e deve attaccare alcuni alveari infetti, mentre lo zombie deve impedire che ciò accada e accumulare un tot numero di uccisioni per ottenere la vittoria finale, sfruttando alcune abilità peculiari, come un urlo utile a mostrare la posizione dei sopravvissuti anche a distanza, dell’acido corrosivo che attira orde di infetti nelle vicinanze e lunghi tentacoli utili per attaccare e spostarsi con rapidità. Purtroppo, al di là di qualche inciampo nel net code, il multiplayer competitivo di Dying Light soffre di problemi di bilanciamento: in 4 o 3 contro 1 non c’è storia (a favore degli umani), mentre nelle altre combinazioni è lo zombie che rischia di avere vita troppo facile. Insomma… idea carina, ma Dying Light ha un senso compiuto nella sua incarnazione single player: il resto è roba accessoria.[/box_articoli]In Dying Light non è previsto il viaggio veloce. Ho letto qualche crociata contro Techland a proposito della sua assenza, ma devo personalmente espormi a favore della scelta dello sviluppatore polacco. Buona parte della tensione si accumula sapendo che il tempo scorre e che con l’arrivo della notte le cose cambiano radicalmente: a mio avviso, fa proprio parte dell’esperienza di gioco pianificare gli spostamenti, bilanciando le esigenze delle missioni con l’esplorazione brutale e la necessità di muoversi il meno possibile al buio. Quando il sole cala aumentano gli XP accumulabili con le varie azioni, ma compaiono nuovi infetti, particolarmente inferociti e da cui conviene stare alla larga il più possibile. Questi vengono indicati chiaramente sulla mappa, con tanto di cono di visuale dentro il quale è meglio non capitare, a meno di non voler essere inseguiti con una veemenza tale che in confronto gli zombie di World War Z sembrano vecchiette che si dedicano al punto-croce. A poco serve cercare rifugio sui tetti, perché queste specie avanzate di infetti sembrano aver vinto i campionati mondiali di parkour e sono in grado di stare dietro a ogni nostra evoluzione ginnica. Pensate che per alzare a cannone l’asticella della tensione quei simpaticoni di Techland hanno anche riservato un tasto per guardare indietro mentre si sta correndo… i brividi sono garantiti.
Nel caso s’inneschi un inseguimento, le possibilità di lasciarci le penne (e perdere Punti Sopravvivenza) è alto, ma non tutto è perduto. Innanzitutto, con le armi giuste e un po’ di abilità anche lo zombie più inferocito può essere ridotto alla ragione, a patto di avere l’opportunità di ingaggiare senza aver coinvolto altri infetti nelle vicinanze. Inoltre, la furia nemica può essere tamponata sia utilizzando una torcia a raggi ultravioletti che ci viene fornita all’inizio dell’avventura, sia sfruttando alcune trappole luminose disseminate per la mappa da altri sopravvissuti. Alla mal parata, c’è sempre la possibilità di chiudersi in un rifugio sicuro e lasciar passare la notte, dormendo su un giaciglio di fortuna. I rifugi rappresentano un vero e proprio gioco nel gioco, visto che non ci vengono forniti gratuitamente, ma occorre che li apprestiamo durante le nostre esplorazioni. Quando siamo nei pressi di un potenziale rifugio una scritta a schermo ci ricorda che è buona cosa metterlo in sicurezza, dapprima chiudendo ogni ingresso, e poi ripulendolo dagli infetti che sono rimasti all’interno del perimetro. Una volta concluse le pulizie, oltre a riposare possiamo usare l’onnipresente borsone come contenitore universale per gli oggetti che abbiamo nello zaino e che riteniamo non avere un’immediata utilità, così da poterli recuperare all’occorrenza in uno qualsiasi degli altri rifugi.
A dare un po’ di pepe all’esplorazione intervengono alcuni eventi casuali che possono essere ignorati, ma che spesso conviene indagare, almeno per capire quanto valga la pena intervenire, piuttosto che passare oltre. Che si tratti di liberare qualche poveraccio dal giogo di infetti che lo circondano o di recuperare uno dei tanti rifornimenti aerei, le micro-missioni randomiche aggiungono sfizio allo sfizio, e talvolta sono foriere di upgrade utili alla causa.
ALTA DEFINIZOMBIE
Devo ammettere di essere rimasto abbastanza sorpreso dall’aspetto tecnico di Dying Light, anche perché Techland non è certo uno sviluppatore conosciuto per aver partorito chissà quali magnificenze visive. Intendiamoci… anche in questo caso non c’è nulla che faccia gridare al miracolo, ma il colpo d’occhio c’è ed è importante, contando poi che stiamo parlando di un open world dove spesso la vista ha modo di spaziare in lungo e in largo senza che il dettaglio degli elementi lontani abbia da risentirne eccessivamente. Su PS4 Dying Light gira a 1080p col frame rate inchiodato a 30 fps, un valore più che ottimale per giocare in serenità senza troppi pensieri; nel caso di questa versione lo speaker del DualShock 4 si occupa di riprodurre tutte le conversazioni che arrivano via radio, aumentando così il già alto grado di coinvolgimento.
[quotesx]la versione PC ha qualche problema di ottimizzazione[/quotesx]Se sulla versione Xbox One non posso esprimermi, ho invece da dire a proposito della versione PC, altrettanto bella da vedere (a tratti ancor di più) ma più problematica in termini di prestazioni e ottimizzazione. Un sistema che monta un i5-4670K, una GTX 780 e 8 GB di RAM si è comportato decorosamente, mantenendosi tra i 40 e i 60 fps all’aperto e aggiungendo una ventina di frame negli ambienti chiusi. Su un Quad Core più vecchiotto, però, Dying Light ha mostrato parecchi problemucci di stuttering, pur ritoccando al ribasso alcuni parametri e rinunciando al HBAO+ per le ombre e al Depth of Field di Nvidia. L’impressione è che su PC il codice di Dying Light faccia troppo affidamento alle prestazioni della CPU e che sfrutti in maniera approssimativa le capacità multi-GPU delle schede video; difficile dire se si tratta di difetti endemici del motore grafico usato da Techland (il Chrome Engine 6) o se, invece, c’è alle spalle un problema di porting malriuscito da console, laddove però il gioco funziona senza eccessivi patemi (almeno su PS4).