Una ragazza, di cui si conoscono unicamente nome e poche informazioni di contorno, viene inglobata in un non-luogo, che lo spettatore è chiamato ad assimilare distillato attraverso le percezioni della protagonista. Il non-luogo si tramuta in un ambiente familiare, ma proprio quando l’abitudinarietà a quello spazio angusto e claustrofobico sembra farsi strada, ecco sopraggiungere nuovi indizi per rivelazioni che condurranno a nuove ipotesi e successive scoperte: questo è il mood che attraversa e si impadronisce a pieno di 10 Cloverfield Lane, l’opera per il grande schermo firmata da Dan Trachtenberg e prodotta da J.J.Abrams.
Abrams non poteva non collaborare ad un film-ibrido così pesantemente virante verso l’abile costruzione ansiogena propria della sua più brillante creatura, la serie televisiva LOST. Come in quest’ultima, anche in 10 Cloverfield Lane spunti intrisi di mistery la fanno da padrone, dirigendo la narrazione verso molteplici direzioni: lo spettatore non sa decifrare a chi affidare la propria fiducia, finendo con il barcamenarsi tra le varie opzioni presentate e proponendone di proprie circa il mistero che aleggia intorno al “rifugio” nel quale gran parte dell’azione ha luogo. Credere o non credere a quanto si dice stia accadendo al di là delle quattro mura entro le quali i tre personaggi sono chiamati a convivere, questo è il dilemma intorno al quale tutto il film si aggroviglia, intessendo una matassa intricata seppur avendo a suo vantaggio pochi elementi: un non-luogo e tre personaggi chiamati ad interagirvi.
[quotedx] Lo spettatore non sa decifrare a chi affidare la propria fiducia,[/quotedx]
10 Cloverfield Lane non può essere incasellato in un genere di appartenenza unico. Viene proposto come thriller, ma venature quasi tendenti all’horror si inseriscono per aumentare il senso di angoscia regnante in una situazione paradossale in cui quel luogo claustrofobico sembra essere l’unico adibito alla sicurezza contro un ipotetico nemico esterno. Ma un gusto per il fantascientifico si impossessa gradualmente del tessuto narrativo, terminando con un’acme finale in cui tutto si manifesta. Ma la risoluzione risulta troppo distante dal vissuto narrativo esposto e quindi, proprio come accade nelle ultime puntate che chiudono la serie tv Lost, si lasciano cadere nel vuoto interessanti spunti drammatico-psicologici disposti precedentemente, spunti che attestavano un ingegno ed un’attenzione a mantenere il tono del film costantemente sintonizzato su un pathos mai decrescente e che ora invece si perdono come se non fossero mai esistiti.
Mary Elizabeth Winstead, interpretante Michelle nel lungometraggio, riesce a mantenere vivo e costante quel senso di ansia che si impadronisce del suo personaggio, così come del film stesso. Il suo punto di vista è quello assunto dallo spettatore: lei prova ad interpretare la realtà e dirige il suo sguardo affinché anche lo spettatore possa fare altrettanto, infatti la conoscenza di quest’ultimo è vincolata a quella del personaggio, non è onnisciente, ma partecipa alle peripezie vissute dalla protagonista. Ma la sapienza con la quale è stata elaborata la sceneggiatura è tale da permettere a chi osserva il susseguirsi delle sequenze di distaccarsi dalle considerazioni di Michelle, nonostante il suo punto di vista sia predominante, e porre propri quesiti circa gli avvenimenti di cui si hanno informazioni. Si dà luogo, dunque, ad un’indagine a più livelli: quella messa in atto da Michelle, sostenuta da Emmet, impersonato da John Gallagher Jr., attore di un’altra popolare serie televisiva, The Newsroom, e quella condotta dallo spettatore, che segue il cammino imposto dalla protagonista, ma se ne discosta in alcuni momenti per trarre proprie conclusioni, per elaborare l’incertezza della realtà circostante e frantumare ogni possibile brandello di finte costruzioni per giungere allo svelamento finale, purtroppo poco in linea con le brillanti premesse enunciate nel corso del film.