Quasi una decade è passata dall’ultima volta che abbiamo visto Matt Damon interpretare la spia Bourne. Dopo Identity, Supremacy e Ultimatum, era l’ora di adottare il nome proprio, quello di Jason. A tornare nel franchise, oltre a Damon, c’è anche Paul Greengrass, il regista degli ultimi due. La ragion d’essere di quest’ultimo film sembra essere la chiusura definitiva del protagonista con il suo passato tormentato. Ma buona parte del fascino e del successo della saga si basa proprio sulla perdita delle motivazioni che hanno portato Bourne a essere quel che è. E il finale, come s’intende sin dalle prime battute, è quello che più assomiglia a un totale riacquisto della memoria. Il rischio intrapreso dai filmmaker, quindi, è doppio. Da un lato la pellicola potrebbe essere assimilata ai vari tentativi d’emulazione che la trilogia originale ha ispirato. Dall’altro i prossimi film del franchise (perché ci saranno) vengono privati di un genuino alone di mistero. Dopo aver visto la pellicola posso garantirvi che entrambi i rischi sono reali e pregnanti. La storia del film, sebbene introduca Jason Bourne all’era dei social media e al controllo totale della privacy, non porta sorprese in meriti di trama. E anche i personaggi soffrono di un fastidioso senso di déjà vu, eccezion fatta per quello di Alicia Vikander. Quest’ultima è la giovane, ruspante dirigente della divisione informatica della CIA, Heather Lee. Suo diretto superiore è Robert Dewey, interpretato da un sempre inquietante Tommy Lee Jones. I due sono una metafora di un’Agenzia in mutamento, il vecchio che contrasta lo scalpitante nuovo. Ma la vera nemesi di Bourne è l’Asset, uno spietato agente segreto con la faccia asimmetrica di Vincent Cassel. È tanto diverso dagli assassini di Karl Urban e Clive Owen dei passati film? Proprio no. Anche se, almeno, stavolta gli viene fornita una ragione per uccidere il protagonista che non corrisponda al solito “sto eseguendo un ordine”. Mi è piaciuto il fatto che uno dei personaggi coinvolti nel piano degli antagonisti è Mark Zuckerberg. O, almeno, una sua versione cinematografica. È il giovane e brillante proprietario di un social network molto simile a Facebook, Deep Dream, che la CIA vuole utilizzare per spiare il mondo.
La storia di Jason Bourne si dipana, com’è d’uso, in ambientazioni “esotiche” (nel senso etimologico del termine, data la natura statunitense della serie) come Italia, Grecia, Islanda, Inghilterra e Germania. La Grecia è il paese che Bourne ha scelto per il suo esilio auto-imposto. Vive, come ogni spia ultra-mondana che si rispetti, facendo a pugni in combattimenti clandestini con omoni russi o croati. Salvo poi dimenticarsi sempre di riscuotere il compenso. Viene lì raggiunto da Nicky Parsons, interpretata da Julia Stiles per salvezza di continuity, che ha scoperto nuove informazioni su Treadstone e un nuovo, terribile progetto col quale la CIA vuole candidarsi all’ambito premio per “Agenzia di servizi segreti più malvagia”. All’anti-eroe Bourne non frega nulla di sventare l’ennesimo piano per “difendere l’America”, gli interessa però raccogliere gli ultimi pezzi del suo passato. Il papà di Jason Bourne/David Webb sarebbe infatti direttamente collegato a Treadstone. La rimpatriata fra i due viene però rovinata, appunto, da Heather Lee, che ha scoperto dell’incontro ad Atene. La Grecia, stando al film, è un paese davvero violento. Perché lì c’è la crisi. È in corso una protesta davanti al parlamento, i manifestanti lanciano molotov e la polizia distribuisce cariche e manganellate. È in questo contesto che assistiamo alla prima scena di azione del film. Bourne picchia i poliziotti, ruba molotov, ruba una moto e fugge dall’Asset in un lungo inseguimento fra le pittoresche stradine.
La regia di Greengrass è magistrale, a tratti spasmodica ed estraniante, anche a causa di un montaggio velocissimo che fraziona ogni singolo evento. Ogni colpo che Bourne distribuisce fa male, malissimo. Gli espedienti sono geniali. I fraseggi esaltanti. Ma è difficile arrivare all’ultima, grande scena d’azione ambientata nella luccicante Las Vegas senza provare della stanchezza o almeno un vago senso di nausea. In Jason Bourne vediamo azione, gente che cammina per corridoi e tanti, tantissimi computer. Il futuro è qui, appunto. Gli hacker possono sabotare i dati di un PC semplicemente collegandosi allo smartphone più vicino. Ciò che più di tutto i cattivi temono è un nuovo “Snowden” o un Wikileaks 2.0. E c’è la crisi. Ma non c’è un colpo di scena degno di questo nome, il cuore non salta nemmeno un battito. Il futuro è già qui, infatti a metà film avevo già indovinato la sorte di tutti i personaggi. Il movimento è ben calibrato, il montaggio sicuro, la videocamera traballa e ci da il realismo di cui abbiamo bisogno. Il protagonista rinasce, quasi dimentica l’uso della parola (The Bourne Reborn?), e di questo gli siamo grati, asfissiati dalla logorrea di certi nuovi eroi. Ma c’erano motivazioni per realizzare questo sequel fuori dal guadagno di qualche dollaro in più e fornire l’ennesimo film d’azione senz’anima, senza sudore?