T2 Trainspotting inizia come il film precedente: correndo. Stavolta, però, Mark Renton aka Rent Boy non scappa dai commessi di un negozio dopo un furtarello. Corre sul tapis-roulant di una palestra olandese, e a fermarlo non è un’auto, ma un attacco di cuore. Invecchiato sì, ma invariato. È ancora lo stesso egoista: ha vissuto ad Amsterdam per vent’anni, non si è mai scusato con i suoi “cosiddetti amici” e non è tornato a casa nemmeno per il funerale della madre. Ha “scelto la vita”, e la vita l’ha fregato. E allora si arrende, torna in patria. Come gli altri ragazzi di Edimburgo è rimasto incastrato nel suo microcosmo. Spud Murphy si fa ancora di eroina. Simon “Sick Boy” Williamson tira a campare fregando la gente. Francis Begbie, quasi non ci sarebbe bisogno di dirlo, ha passato metà della vita in galera. Tutti loro conoscono gli smartphone, Facebook e Instagram, ma vivono nel passato. Gli anni ’90, adesso, li amano. Potenza della nostalgia. Anche adesso il pretesto narrativo, che unisce e divide gli amici, sono i soldi. Tutta la vicenda, però, ruota attorno a una prostituta bulgara, di cui sia Renton che Simon sono innamorati. Lei, Veronica – bella, compassionevole, acuta – rappresenta la vita vera contrapposta a quella “scelta”. Ciò che rendeva leggendario il finale di Trainspotting – il ghigno sfocato di Ewan McGregor che si prende gioco della nostra pallida esistenza – viene così barbaramente rimontato a piacimento in una morale costruttiva. Si tratta di una di quelle lezioni che, negli ultimi vent’anni, ci è stata somministrata in tutti i luoghi e in tutti i laghi. Ma quando scorrono i titoli di coda c’è solo una domanda che mi ronza in testa: questo film era davvero necessario?
L’anno passato, all’anteprima romana di Steve Jobs, ebbi l’occasione di porre una domanda a Danny Boyle, regista di un film-manifesto come Trainspotting. Gli chiesi – domanda sediziosa, lo ammetto – quali fossero le cause dell’ondata di biopic e sequel che si era imposta nell’ultimo periodo; sembrava che gli autori non riuscissero più a cavare materia prima, che le riserve di idee nuove si fossero esaurite. Un anno dopo il Nostro se ne esce con T2 Trainspotting. Con questo non voglio dire che il seguito del film del ’96 non sia a suo modo originale. Non si tratta infatti di una trasposizione di Porno, secondo libro sulle avventure acide di Renton, Sick Boy, Spud e Frank. Anzi, con il romanzo non c’entra nulla, ed è proprio qui la magagna. Trainspotting 2 è uno dieci cento mille passi indietro rispetto al primo, per il quale nutre reverenza e vergogna al tempo stesso. Vergogna di che, poi? Della giovinezza? Il tuo film, Danny, traboccava giovinezza, rabbia, disperazione. Rivolta. Un furore silenzioso lo permeava, non verso gli adulti, ma verso il mondo che gli adulti lasciano alle generazioni successive. Per questo “è – e sempre sarà – una merda essere scozzesi”. Di quella rabbia, in T2, non rimane nulla, se non senile orgoglio. Le scene iconiche vengono rivisitate, mostrate in una nuova, deprimente cornice. Spesso anche giudicate. Ma come può un figlio giudicare il padre? Trainspotting è il padre di T2, non viceversa! La pellicola nuova nasce così già canuta, rimbambita. Ci ricorda a ogni piè sospinto – a mo’ di scusa, come un vecchio lamentoso – che il mondo è cambiato. A me sembra, Danny, che l’unica cosa davvero cambiata in questi vent’anni sia la tua capacità di dire qualcosa. Nel senso che l’hai persa proprio! Ed è T2 la tua eredità? Perché più che altro è un’offesa a chi, il film del ’96, lo ha amato.
Fosse stato un vero sequel – forse – qualcosa da salvare sarebbe rimasto. Ma al regista Danny Boyle e a chi ha scritto la sceneggiatura non interessava dare seguito, ma solo vivisezionare. Trainspotting è un’opera che ancora oggi pulsa di vitalità creativa. E che fanno loro, impietosi chirurghi dissennati? Tolto cuore, fegato e cervello rimane solo un teschio a fissarci dalle orbite vuote. Non m’interessa vedere Sick Boy mentre si tinge i capelli. Non voglio sapere delle doti da intrattenitore di Renton, né di quelle da narratore di Spud. Continua a non fregarmene nulla della prostituta bulgara (senz’offesa né per bulgare né per tutte le mie amiche prostitute). Il rapporto conflittuale fra i due migliori amici mi è già chiaro così, non c’è bisogno che mi venga palesato con una scazzottata; lo stesso vale per l’omosessualità latente di Begbie. Potevano evitare di offendere la memoria di Lou Reed con l’edizione melensa di Perfect Day. E poi non voglio vedere Mark snobbare un cesso sporco. E, soprattutto, non voglio sentire una versione 2.0 del monologo “scegli la vita”, sputacchiato a una cena romantica per far colpo su una ragazzina. Quel monologo era perfetto così, cristo. Straziante.