Journey – Recensione

Dopo gli ottimi porting di Flow e Flower, era solo questione di tempo prima di vedere arrivare su PlayStation 4 anche l’ultimo grande titolo di Thatgamecompany, Journey. Una produzione che ha portato la software house indipendente fondata da Jenova Chen e Kellee Santiago nel 2006 a conquistare gli apprezzamenti di critica e pubblico di tutto il mondo. Non che i loro precedenti lavori non fossero degni di plauso, intendiamoci. In particolare Flower ha praticamente ridefinito il concetto di poesia in movimento, quasi un anti-videogame, dove non si uccide, non si combatte, non si vince nulla, semplicemente si esplora, si viaggia e, cosa non da poco, ci si lascia cullare da uno splendido manto erboso riprodotto con una qualità ancora oggi insuperata. Già, perché i ragazzi di Thatgamecompany ci hanno sempre tenuto all’aspetto dei loro giochi, rifiutando un po’ quel concetto di minimalismo a tutti i costi che sembra ormai imperversare (con alterni risultati) negli indie moderni. Una scelta che ha dilatato spesso i tempi di sviluppo, ma che si è fatta particolarmente gravosa proprio durante gli oltre tre anni che hanno caratterizzato il complesso iter produttivo di Journey.

LA VITA È UN VIAGGIO

Il titolo in questione, ultimo di un trittico fonte di un accordo esclusivo con Sony, sarebbe dovuto sbarcare sul PSN nel giro di 12 mesi, salvo poi rimbalzare da un anno all’altro, portando quasi al collasso la società di Jenova Chen, talmente soverchiata dai debiti, da essere stata costretta a non pagare più i suoi dipendenti per mesi. Una situazione paradossale, ma che non ha in alcun modo intaccato la ferrea volontà degli sviluppatori, che con una pazienza quasi certosina sono riusciti a mettere assieme uno dei giochi più emozionanti e intensi che abbia mai avuto il piacere di provare in tutta la mia carriera. Di Journey del resto si è parlato tantissimo in questi anni, tanto che molti lo considerano, a piena ragione, un’opera assolutamente eccezionale, che travalica di gran lunga tutti gli stilemi classici dei videogiochi, andando ben oltre quelle meccaniche ormai abusatissime alle quale ci siamo praticamente assuefatti. Il concetto stesso alla base del gameplay è terribilmente affascinante, poiché prevede una sorta d’interazione con altri giocatori, basata unicamente sull’emissione di alcuni suoni e un semplice input visivo. Tutto questo senza che a video appaia alcun riferimento sull’identità dei nostri compagni di viaggio, se non dopo i titoli di coda, una scelta voluta proprio per evitare pregiudizi dovuti magari a un nickname particolare.[quotedx]ora possiamo ammirare ogni granello, ogni sfumatura, ogni dettaglio, impreziosito dalla risoluzione Full HD e da una fluidità pressoché perfetta[/quotedx]Ho parlato di viaggio non a caso, poiché Journey rispetta pienamente il suo nome, portandoci per mano attraverso quelle che potrebbero essere letteralmente le stagioni della vita; la nascita, la scoperta, le prime amicizie, la paura di crescere, le responsabilità, i momenti bui, le cadute, le risalite, la maturità, la vecchiaia e, infine, la morte. Una splendido affresco della nostra fragile esistenza che si esprime attraverso la bellezza digitale di un mondo sabbioso e solo in apparenza arido, sottolineato da una magistrale colonna sonora, composta con anima e cuore dal mai troppo lodato Austin Wintory (attualmente impegnato nella realizzazione della soundtrack di Abzu). Il risultato finale è talmente bello ed emozionante che risulta quasi impossibile non sentire un groppo in gola negli ultimi atti del gioco, un qualcosa di così profondo da riuscire a toccare davvero le corde dell’anima. Journey è tutto questo e forse anche molto di più, perché mai come in questo caso le parole lasciano il tempo che trovano. Forse qualcuno continuerà freddamente a criticare un impianto di gioco ridotto al minimo e una longevità risicatissima (difficile metterci più di due ore per completarlo), ma se consideriamo il valore intrinseco di questa produzione e quello che riesce a trasmettere in un arco di tempo tanto ridotto, ogni difetto, se possiamo definirlo tale, finisce col passare decisamente in secondo piano.

Dal 2012 a oggi pochi altri titoli sono riusciti a trasmettere con tanta efficacia e potenza un qualche messaggio e dobbiamo essere grati a Thatgamecompany se hanno deciso di portare questa splendida esperienza su PlayStation 4, sebbene attraverso il talento di Tricky Pixels, che insieme a Sony Santa Monica ha provveduto a convertire magistralmente Jouney nello splendore dei 1080p a 60 fps. Se già di suo era un gran bel vedere, specialmente nell’eccellente simulazione della sabbia, ora possiamo ammirarne ogni granello, ogni sfumatura, ogni dettaglio, impreziosito dalla risoluzione Full HD e da una fluidità pressoché perfetta in ogni istanza. Inoltre, come già accaduto per Flow e Flower, Sony ha previsto il cross-buy, quindi se avete acquistato il titolo ai tempi della sua uscita su PS3, potrete riscaricarvelo oggi senza tirare fuori mezzo euro. Per tutti gli altri, sappiate che questi 15 euro (ma c’è un 20% di sconto per gli utenti Plus) non sono spesi bene, di più, molto di più. Certamente meglio dell’ennesimo filmaccio in 3D che di certo stavate pensando di andare a vedere al cinema…