Metal Gear Solid V: The Phantom Pain – Recensione

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L’enorme sforzo produttivo dietro questo ultimo e definitivo parto di Hideo Kojima è visibile in ogni dettaglio, dal più sottile al più macroscopico. Metal Gear Solid V: The Phantom Pain è infatti la creazione finale, l’apogeo di una luminosa carriera durata quasi trent’anni, che ha portato l’ambizioso ragazzo di Tokyo alle luci della ribalta, facendolo entrare di diritto nella storia del mondo videoludico. Una fulgida carriera, costellata di produzioni memorabili e collaborazioni di altissimo spessore, che avrebbe dovuto portarci in dote, un giorno, un nuovo Silent Hill firmato insieme a Guillermo del Toro, quasi un sogno a occhi aperti. Peccato che il risveglio sia stato tanto brusco, con un divorzio improvviso da Konami, che in una sorta di battaglia di nervi ha provate persino a cancellare ogni riferimento dell’esistenza della Kojima Productions dalle pubblicità e dalle confezioni del gioco. Un brutto affare, che purtroppo deve aver segnato in qualche modo anche lo sviluppo di questo titolo, tanto eccezionale sotto certi aspetti quanto deludente sotto altri.

Se avete letto le anteprime passate, compreso il nostro incontro diretto con il gioco in una sessione privata di due giorni presso gli uffici di Konami Paris, saprete che ci troviamo al cospetto di un vero e proprio open world, ben distante dalle aree circoscritte che hanno costantemente caratterizzato la serie. Una scelta che si riflette in maniera sostanziale sul gameplay, scevro di ogni costrizione, quasi una lettera d’amore al genere sandbox, perché in fondo proprio di questo si tratta. Una scatola di sabbia piena zeppa di strumenti d’ogni genere, un vero concentrato di armi, gadget e “spalle”, alcuni utili e altri inutili. Al giocatore la facoltà di scegliere cosa fare, come farlo e quando farlo, seguendo le proprie velleità combattive. Perché di fatto nessuno vieta di assaltare un campo nemico armati di lanciarazzi e fucile a canne mozze, tanto meno di far fuori i soldati uno ad uno a mani nude, oppure di addormentarli tutti quanti a suon di dardi soporiferi.
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Bisogna però evitare di ripetersi, di illudersi che con la super arma appena sviluppato il gioco scivolerà via veloce, senza complicazioni, trasformandosi in una sorta di grosso tirassegno. Sarebbe un errore madornale, perché pian pianino vedrete le truppe ostili indossare elmetti per proteggersi la testa, scudi per evitare di finire impallinati, tute a piastre per resistere anche alle esplosioni più potenti. Sono furbi, non sottovalutateli. Possono vedervi a grandi distanze, si insospettiscono per un nonnulla e verranno immediatamente nella vostra direzione se avranno anche solo il dubbio che ci sia qualcosa che non va. Bisognerà quindi sfruttare questa loro caparbietà per riuscire ad averne la meglio, tenendo ben presente che l’omicidio rappresenta sempre l’ultima carta da giocare, la meno utile oltretutto. Un soldato in vita infatti può rivelare preziose informazioni, come l’ubicazione di prigionieri, documenti importanti e materiali di varia utilità. Inoltre, particolare non da poco, i nemici potranno essere recuperati e spediti alla base con il sistema Fulton, quei palloncini aerostatici che avrete visto in azione in un milione di trailer.

LA MADRE DI TUTTE LE BASI

Il Fulton del resto è quasi il basamento su cui si poggia l’intera struttura di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, legato a doppio filo con la costruzione e l’espansione della Mother Base. Questa struttura, che ricorda tanto una piattaforma petrolifera riconvertita, rappresenta non solo il quartier generale dell’esercito di Big Boss, i Diamond Dogs, ma anche una componente gestionale con la quale volenti o nolenti toccherà confrontarsi. Oltre al core centrale infatti, pian pianino potrete – e anzi dovrete – dare i natali ad altre unità con compiti specifici, compresa la sicurezza, ricerca e sviluppo, spionaggio, combattimento e via discorrendo. Ognuno di questi settori può essere inoltre ingrandito fino a quattro volte, permettendo non solo di ospitare uno staff in costante crescita, ma anche di dar vita a nuovi potenziamenti e upgrade, da sfruttare poi sul campo di battaglia.

Non parliamo ovviamente di sole armi, che comunque comprendono un’immensa varietà di sputafuoco, suddivise in numerose categorie che di fatto vanno a coprire ogni possibile desiderio bellico. Non da meno però sono i vari strumenti di cui può usufruire Big Boss, comprendenti anche particolari medicinali in grado di aumentarne momentaneamente alcune caratteristiche, a patto di raccogliere le giuste erbe sul campo di battaglia (già, c’è pure questa cosa di cui tenere conto). Non mancano gadget in grado di renderci momentaneamente invisibili, sistemi Fulton potenziati al punto tale da poter sollevare blindati e container, uniformi più resistenti e, soprattutto, diverse migliorie dedicata al braccio bionico. L’arto artificiale è infatti molto più che una sofisticata protesi, dato che può renderci più veloci, precisi ed efficienti, arrivando persino a trasformarsi in una sorta di “rocket punch” in puro stile Mazinga (anzi, forse anche meglio).
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Un discorso a parte lo meritano i cosiddetti Buddy, ovvero i nostri fedelissimi compagni di avventura, il primo dei quali rappresentato dal fedele cavallo D-Horse. Questa bestia stupenda non solo si controlla molto bene, ma ci permetterà di muoverci attraverso la mappa con una notevole velocità, arrivando a eseguire i nostri ordini con una discreta efficienza. Sì, può anche “andare di corpo”, ma solo dopo che avremo raggiunto una certa complicità, diciamo. Infatti più staremo a contatto con il nostro Buddy e più comandi si sbloccheranno, permettendo quindi di impartire ordini più complessi. È il caso di D-Dog, il lupo in tutto e per tutto simile a Big Boss, benda compresa, che ci segnalerà anche dove si nascondo i nemici, arrivando persino a distrarli o ad aggredirli in caso di pericolo.[quotedx]Quiet è un cecchino formidabile e si rivelerà fondamentale in molteplici situazioni[/quotedx]Fra tutti però quello, anzi, quella che più emerge è Quiet, la spietata quanto silenziosa sniper che il nostro eroe affronterà in una missione, salvo poi volerla a tutti i costi al proprio fianco. Cecchino formidabile, si rivelerà fondamentale in molteplici situazioni, riuscendo a coprirci con efficacia e sfoggiando una notevole autonomia d’intervento. Inoltre, a differenza degli altri Buddy, avrà un ruolo ben preciso nell’evolversi della storia, cosa fra l’altro intuibile osservando con attenzione la lunga introduzione del gioco (che è piena di easter egg, sappiatelo). Chiude il circolino degli amici il più passivo del gruppo, il D-Walker, un mix fra un robot e un esoscheletro, che oltre a fornirci di una protezione aggiuntiva, potrà ospitare armi di grosso calibro, compresi lanciarazzi multipli, lanciafiamme e micidiali gatling gun. Personalmente l’ho utilizzato pochissimo, preferendo un approccio più stealth, ma la sua presenza è un chiaro indice di come i game designer abbiano pensato davvero a tutto e a tutti, compresi quelli che preferiranno affrontare il gioco a spron battuto, sparando e distruggendo la qualunque.

SÌ, MA I BOSS?

Domanda lecita, che più di una volta ho scorto in diversi forum e gruppi di discussione, perché diciamocelo, uno degli aspetti più straordinari della saga di Metal Gear Solid sono sempre stati gli scontri con i boss. Questi personaggi assurdi, spesso ben oltre il limite del caricaturale, sono stati quasi sempre al centro di alcune fra le sequenze più belle e appaganti: come dimenticare il confronto con Psycho Mantis nel primo Metal Gear Solid, dove bisognava cambiare la porta del pad per riuscire ad averne ragione, o quello con The End in Snake Eater, una sfida tesissima dove occorreva affidarsi a ogni senso per riuscire a scovare il leggendario (e apparentemente immortale) sniper? Purtroppo, e ve lo dico con il cuore da fan storico in mano, The Phantom Pain è una vera delusione sotto questo aspetto. I boss qua sono rappresentati dalle truppe dei Ghost, la cui versione maschile sfoggia una resistenza ai colpi straordinaria, mentre quella femminile predilige l’utilizzo di fucili da cecchino (al limite del one shot one kill). Nessuna delle battaglie riesce in realtà a regalare autentiche emozioni, essendo più che tutto una sfida di nervi, dove l’unica difficoltà è rappresentata dalla forza dei numeri (quattro contro uno) e dalla resistenza smodata degli avversari, specialmente il gruppetto che vanta l’armatura autorigenerante. Poco entusiasmante anche il confronto con l’immenso Metal Gear Sahelanthropus, che si risolve a suon di missilate senza arte né parte. Non sono certo le parole che speravate di leggere, ma potete credermi, sono io il primo a esserci rimasto male. Certo, non si vive di soli boss, ma si tratta pur sempre di un marchio di fabbrica, e dal genio di Kojima, viste anche le potenzialità infinite di questa produzione, era lecito attendersi ben altro.
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UNA STORIA DI POCO FALSA

Altro capitolo dolente è rappresentato dal bislacco copione redatto dal caro Hideo. Intendiamoci, ci siamo fatti andare bene ogni cosa in passato, anche le più assurde e complicate trame fantapolitiche, ma in questo caso il problema non è l’incomprensibile intreccio narrativo quanto piuttosto la bizzarria del racconto, che ruota intorno a un virus legato a un determinato tipo di idioma. Una storia che fa acqua da tutte le parti, ma che oltretutto perde di efficacia subito dopo la conclusione del primo capitolo (che fra l’altro avviene dopo non meno di trenta ore di gioco). Si ha quasi l’impressione che a un certo punto Kojima abbia deciso di gettare alle ortiche quanto raccontato fino a quel momento, avviandosi verso un finale risolutore che è quasi un dito medio nei confronti dei giocatori, tanto che viene da chiedersi il perché di certi villain, come Skull Face, il cui impatto rimane talmente circoscritto da risultare quasi ininfluente.[quotesx]Si ha quasi l’impressione che a un certo punto Kojima abbia deciso di gettare alle ortiche quanto raccontato fino a quel momento[/quotesx]E dire che ce l’avevano presentato come il più malvagio bastardo della storia di Metal Gear Solid, mentre in The Phantom Pain rimane quasi una presenza aleatoria, sospinto da motivazioni così deboli e poco convincenti da lasciare quantomeno perplessi. E poi c’è Eli, il White Mamba, che chiunque abbia un minimo di background della serie avrà immediatamente riconosciuto. Anche lui sembra infilato lì, senza troppa convinzione, un discorso applicabile persino a Revolver Ocelot, che pure in passato ci ha regalato momenti meravigliosi. Difficile dire se Kojima abbia fallito nel trovare un giusto equilibrio fra gameplay e scene d’intermezzo o più semplicemente avesse in mente qualcosa di completamente diverso, salvo poi doversi ridimensionare pesantemente dopo i dissapori – chiamiamoli così – con Konami. Forse gli hanno chiuso i rubinetti, forse gli hanno tarpato le ali, fatto sta che il capitolo due, quello che a tutti gli effetti rappresenta la seconda e conclusiva parte di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain, stride paurosamente rispetto alla prima sezione, anche in termini di gameplay.

Essermi ritrovato a rincorrere missioni secondarie per sbloccarne altre essenziali per il proseguo della trama principale mi è parso un escamotage di altri tempi, un modo poco elegante per allungare inutilmente il brodo, senza che ve ne fosse una reale necessità. Per non parlare delle dozzine di registrazioni audio contenenti spesso indizi tutt’altro che trascurabili in merito alla storia, che costringono a lunghe sessioni in stile podcast non proprio all’insegna del ritmo concitato. Credo che chiunque, dopo 40 o 50 ore di gioco, sarebbe più che soddisfatto di arrivare ai (veri) titoli di coda, con la consapevolezza di poter comunque riprendere il gioco per completarlo al 100%. Nulla che non si sia mai visto in qualsiasi altra produzione, sia recente che passata. Il perché di tanto accanimento probabilmente non lo sapremo mai, ma di certo è fin troppo evidente che qualcosa deve essere andato storto nelle fasi avanzate dello sviluppo, altrimenti non si spiegherebbe un tale e incomprensibile stillicidio nella sezione conclusiva. E parliamo di una fraccata di ore di gioco, mica bruscolini.

SESSANTA FOTOGRAMMI DI GIOIA

Prima di concludere, è d’uopo dedicare una piccola lode al motore grafico, il Fox Engine. Siamo d’accordo che in termini di effetti visivi e complessità poligonale Metal Gear Solid V: The Phantom Pain non riuscirà mai a spodestare titoli come Batman: Arkham Knight o The Witcher 3, ma sarebbe stato davvero assurdo pretenderlo, considerando che ci troviamo al cospetto dell’unico open world su console a poter vantare un frame rate quasi costantemente ancorato ai 60 fotogrammi al secondo, in 1080p oltretutto (almeno su PlayStation 4, l’unica piattaforma sulla quale è stato possibile provare il gioco).[quotedx]ci troviamo al cospetto dell’unico open world su console a poter vantare un frame rate quasi costantemente ancorato ai 60 FPS[/quotedx]Un risultato straordinario, impreziosito fra l’altro da una gestione del passaggio giorno-notte eccellente, grazie alle ottime performance del motore ideato dalla Kojima Productions in termini di resa dell’illuminazione globale. Ottimi anche gli effetti atmosferici, il comportamento della luce in relazione ai materiali (l’ormai celebre physically based rendering, PBR per gli amici) e le animazioni in generale, specie quelle di D-Horse e D-Dog, che avrebbero qualcosa da insegnare a non pochi game developer. Certo, qualche sacrificio per arrivare a un simile risultato è stato fatto: le texture non sono proprio la quintessenza della definizione, un discorso applicabile anche alle ombre, che fra l’altro tendono a spuntare fuori dal nulla a una certa distanza, seppur in maniera meno evidente rispetto a Ground Zeroes. Il pop-up è invece notevolmente contenuto, anche se quello dell’erba si fa notare, specie quando si utilizzano mezzi veloci, che mettono maggiormente in crisi l’engine sotto questo aspetto. In compenso la distanza di rendering è davvero enorme e non mi è mai capitato di vedere un oggetto cambiare di complessità a causa di un LOD mal implementato, al massimo si nota giusto una sorta di fade. Tutti aspetti che potrebbero essere notevolmente mitigati nella versione PC, che metteremo sotto torchio non appena avremo il codice finale sottomano. In ogni caso, ribadiamo, c’è davvero ben poco di cui lamentarsi, anche perché a differenza di tante altre produzioni, non mi è mai capitato, in oltre sessanta ore di gioco, di incappare in crash e/o bug di qualsiasi sorta. Tanto di cappello a chiunque abbia effettuato il debug, ce ne fossero di giochi così puliti e stabili ancora prima del day one…