Nel corso degli ultimi anni, Lara Croft è stata una delle poche icone videoludiche capaci di passare da eroina indiscussa di un’intera generazione, a reietta dimenticata dalle scene. Questo, a causa di alcuni capitoli poco fortunati o di poco conto, fino al trionfale ritorno con un riavvio che aveva il retrogusto della rivincita, con il primo Tomb Raider di nuova concezione targato Crystal Dynamics, ispirato a sua volta ad un altro pilastro della storia recente, quell’Uncharted che col quarto capitolo si avvicina a chiudere un’epoca, con la sua “fine di un ladro”. Ma a differenza delle avventure di Nathan Drake, Rise of the Tomb Raider si prepara invece ad un nuovo inizio per la signorina Croft.
L’ASCESA DI LARA CROFT
Dopo gli eventi accaduti nell’isola di Yamatai nel capitolo precedente, Lara ha definitivamente detto addio alla propria adolescenza, segnando una svolta nella sua giovane vita che la porterà ad essere l’avventuriera che tutti conosciamo. Sulla copertina di un tabloid britannico campeggia il titolo “Un’altra matta Croft“: questo perché Lara ha tutta l’intenzione di portare avanti le ricerche del suo compianto padre defunto, Richard Croft, che prevedono l’individuazione della tomba del profeta, nella quale si troverebbe (così pare) la prova concreta dell’immortalità dell’anima.
L’evento focale nella storia di questo Tomb Raider, quindi, è a tutti gli effetti quello che suggella il mito di Lara Croft, qui narrato attraverso la leggenda della città perduta di Kitezh: risalente al tredicesimo secolo, la storia narra di un luogo maestoso e unico al mondo che sorgeva sulle sponde del lago Svetloyar, in Russia. Dopo che il barbaro Batu Khan attaccò i regnanti dell’epoca, Kitezh fu travolta dalle acque del vicino lago, nascondendo così i suoi segreti per i secoli a venire. La leggenda, però, non finisce qui, visto che stando a quanto racconta il mito soltanto un’anima dal cuore puro potrà raggiungere il luogo sacro e scoprirne così i tesori, uno dei quali legato proprio al mito dell’immortalità tanto bramato dal papà di Lara. E la giovane e risoluta archeologa Croft, seguendo le orme e gli indizi lasciati da suo padre, ha tutta l’intenzione di svelare il mistero dietro a Kitezh. Il tutto, mentre una misteriosa organizzazione nota col nome di Trinity le da la caccia. Un viaggio, questo, che gli sviluppatori di Crystal Dynamics hanno voluto identificare innanzitutto come un parallelismo tra Lara e l’ambiente che la circonda, mai come questa volta co-protagonista dell’intera vicenda.
LE CRONACHE DEL GHIACCIO
Gran parte del level design che cerca in tutti modi di slegarsi da quella asfissiante linearità riscontrata nel precedente capitolo della serie, e che ora “costringe” i giocatori ad un’esplorazione degli scenari molto più meticolosa e precisa. Le aree di collegamento tra le varie sezioni sono ora almeno tre volte più grandi di quelle viste sull’isola di Yamatai e la ricerca di percorsi o indizi per la risoluzione degli enigmi sono raddoppiati rispetto all’avventura principe della giovane ed inesperta Lara. Senza contare condizioni climatiche estreme (in particolare le sezioni che vedono Lara patire il gelido e tagliente vento siberiano) e le reazioni dei nemici e della fauna locale (orsi inclusi) che renderà ogni peregrinazione da un punto all’altro non più come un semplice andirivieni, bensì come una vera e propria escursione all’interno di un micro-ambiente assolutamente credibile e, sotto molti aspetti, “vero”.
Rise of the Tomb Raider segna però anche il ritorno ad una filosofia di gioco visibilmente rarefatta nel primo episodio del 2013, per non dire quasi completamente assente: parliamo ovviamente delle sezioni al chiuso, all’interno di strutture archeologiche nelle quali è preponderante l’aspetto esplorativo atto alla risoluzione degli enigmi ambientali, piuttosto che una forzosa (e a tratti ridondante) spettacolarità cinematografica, che caratterizza ad esempio la saga di Uncharted, specie nel terzo episodio. E a tal proposito, tutto quello che ci si aspetta da un Tomb Raider degno di tale nome c’è, dalle trappole a scatto, ai pavimenti pericolanti, ai contorti meccanismi di attivazione di piattaforme e cancelli. Inclusa quella sensazione di stupore iniziale non appena si varca la soglia di una piccola grotta e si scopre che al suo interno vi è nascosto un mausoleo in rovina di enormi proporzioni. Tutti momenti che, chi ama e segue la serie di Tomb Raider sin dal primissimo episodio ideato da Toby Gard (si, proprio quello ricordato bonariamente per i seni piramidali di Lara), ha ben impressi nella memoria. Nonostante ovviamente il livello di sfida e di difficoltà generale sia adeguato ai videogiocatori moderni (niente salti al millimetro seguiti da bestemmie per aver mancato l’appiglio, state sereni). Torna infatti prepotente il “senso di Lara”, che grazie alla semplice pressione della leva analogica destra ci permetterà di rallentare il tempo, evidenziando gli elementi sensibili dello scenario o utili al proseguimento. Se non vi va di vanificare il concetto di esplorazione, vi suggerisco di usarlo il meno possibile.
Poco sopra accennavo ad una maggiore interazione con l’ambiente, che consente a Lara di effettuare numerose azioni che nel prequel erano solamente abbozzate: che sia arrampicarsi sui rami degli alberi o sulle pareti di roccia, nuotare nelle profondità di un lago ghiacciato o di una pozza di melma, o anche dare il via a vere e proprie battute di caccia, sempre e solo in compagnia del proprio fedele arco (e a questo giro, la fauna da cacciare è veramente florida). Che si opti per l’approccio stealth evitando lo scontro diretto, oppure selezionando e successivamente impugnando armi da fuoco migliorabili grazie ad un sistema di crafting ancora più avanzato e flessibile, il sistema di combattimento di Rise of the Tomb Raider prende quanto di buono fatto in precedenza, smussando tutti gli angoli imperfetti.
Una maggiore profondità strategica, con numerose soluzioni ad un singolo problema, gratifica il giocatore scongiurando quel nemico che spesso e volentieri mina prodotti del genere e che risponde al nome di linearità. Poco sopra accennavo infatti al crafting, uno degli elementi capaci appunto di diversificare l’offerta ludica del titolo Crystal Dynamics: armi, equipaggiamenti, o semplici elementi di supporto come abiti ed erbe medicinali, offrono una miriade di soluzioni diversificate per affrontare le sfide con cui Lara dovrà confrontarsi. Ogni ambientazione, inoltre, è letteralmente tempestata di elementi con cui interagire, che siano piante, funghi con cui realizzare speciali frecce avvelenate, oppure rami secchi con cui accendere un fuoco nel rifugio provvisorio scelto per recuperare un po’ le energie, prima di rimetterci in marcia.
Ma è sul comparto grafico che risulta chiara la volontà di Crystal Dynamics di regalare all’utenza Xbox One una delle prime esclusive (seppure temporanea, visto che il gioco è atteso nei prossimi mesi anche sulle altre piattaforme) capace di mostrare realmente quanto la console Microsoft è in grado di offrire, se sfruttata a dovere. Sia l’ambientazione siberiana (a conti fatti l’ambientazione che apprezzerete maggiormente nel corso dell’avventura) che la resa di personaggi primari e secondari (la modella di riferimento di Lara Croft è ancora l’affascinante Camilla Luddington), puntano a farvi immergere in un contesto mitologico con davvero pochi eguali in questa e nella passata generazione. A ciò va però affiancata la cospicua presenza di rocambolesche sezioni di fuga, intervallate (forse troppo) da una massiccia dose di Quick Time Event. Se questo da una parte riempie alcune sezioni di gioco da eventi eccessivamente scriptati, dall’altra è impossibile negare una regia virtuale assolutamente strepitosa, capace di rendere alcune corse verso la salvezza delle vere e proprie esperienze al cardiopalma (a patto di non ripeterle due volte, sia chiaro). E per la cronaca, si, Lara geme ancora, ogni singola volta che si farà del male. E se ne farà, potete starne certi.