Fallout 4: Far Harbor – Recensione

Il sole, dannato sole, non arriva nel Maine. Filtrata dagli alberi e poi assorbita dalla nebbia persistente, la luce diurna fatica nel rivendicare il suo spazio. Piccoli insediamenti resistono all’incedere della natura, lottando per la sopravvivenza con una fauna particolarmente aggressiva e resistente. Lottando, soprattutto, con i propri simili, gli umani, e con chi, almeno all’apparenza, simile sembrerebbe esserlo. Nello scontro tra tre fazioni si intrecciano decine di storie e decine di ore di gioco, capaci di scavare nel rapporto tra umani e sintetici, tra uomo e religione. Anche, tra fede e fanatismo. La lotta per la sopravvivenza, qui nel Maine, non è mai stata cosi affascinante.

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SHE’S LEAVING HOME

Kasumi è fuggita da casa, lasciando nella disperazione papà Kenji e mamma Rei. Il piccolo dramma della famiglia Nakano si trasforma così in un nuovo caso per l’agenzia investigativa Valentine e, quindi, per il giocatore accompagnato dal fedele Nick che, dopo una breve fase preliminare nel Commonwealth, salperà per il Maine, direzione Far Harbor, in cerca della ragazza. L’incipit della nuova e terza espansione di Fallout 4 sembrerebbe, almeno in apparenza, incapace di restituire il respiro narrativo proprio di una quest principale assomigliando, mutatis mutandis, ad una qualsiasi delle storie secondarie già vissute nell’area di Boston. D’altro canto, Far Harbor, la piccola cittadina che da il nome all’espansione, si presenta come un diroccato rifugio di sopravvissuti privo di particolare fascino. La realtà, al prezzo di quasi 25 euro, è ben diversa, perché quella che un tempo era stata una cittadina a spiccata trazione turistica bagnata dall’Oceano Atlantico si rivelerà come fonte primaria di avventura e mistero.

Il primo, appunto, quello di Kasumi. La giovane donna arrivata dal continente sarebbe entrata in contatto con una colonia di sintetici residente sull’isola del Maine flagellata dalla diffidenza e dalle incomprensioni. Il mondo di Fallout, si sa, è diviso in fazioni. E  l’isola non sfugge a questo assioma che, in breve tempo, vedrà il giocatore protagonista degli eventi e, anche, padrone del destino dei suoi abitanti. A differenziare la main quest dell’espansione dalla miriade di avventure già vissute nel corso del gioco base concorrono una serie di fattori. In primis, la nuova mappa che, sfruttando la nuova ambientazione, regala una vasta estensione in termini prettamente quantitativi. Laddove Far Harbor sorprende, però, è proprio nel modo in cui gli sviluppatori hanno riempito l’area che, al netto della solita ambientazione post apocalittica, gode di una buona caratterizzazione e, soprattutto, di nuovi incontri, nuove vite e nuove storie.

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Archiviando per un attimo la storia principale, infatti, al giocatore viene implicitamente chiesto di perdersi in nuovo e piccolo universo che, senza mai nascondere la sua discendenza, offre comunque una buona serie di novità tanto sotto l’aspetto ludico quanto e specialmente sotto quello ambientale. Le side quest di Far Harbor spiccano per la qualità dei dialoghi prima ancora che per quella dei soggetti sceneggiati con maestria risultando, a conti fatti, un’esperienza persino più compatta e bilanciata rispetto alle scorribande nella vasta, molto più vasta, area del Commonwealth. I dialoghi, già. Se quelli del gioco base avevano attirato le critiche della comunità, pronta a sottolineare una eccessiva semplificazione delle linee rispetto al capitolo del 2008, l’espansione cerca e, parzialmente, riesce nell’intento di alzare l’asticella qualitativa grazie ad una maggiore caratterizzazione dei Png, finalmente capaci di elevarsi rispetto al contesto, e una spruzzata di elementi di mistero in dote all’intera mappa. Far Harbor, un tempo popolata da pescatori e turisti, vive la sua lotta contro la nebbia e le mostruosità arroccata tra le storie e i ricordi dei suoi abitanti, desiderosi di condividerle con il giocatore. Lo stesso faranno gli altri autoctoni dell’isola. Da un lato, i sintetici di Acadia, dall’altro i seguaci de I Figli dell’Atomo. Nel mezzo, appunto, il giocatore o, meglio, le scelte morali ed etiche proprie dell’intera esperienza di gioco, più  o meno lunga a seconda dell’approccio e del livello raggiunto dal proprio personaggio. Un livello destinato a crescere grazie a nuove armi e nuovi mostri, come una nuova specie di Mireluk, particolarmente resistente ai colpi di arma da fuoco e le rane pescatrici, incredibilmente rapide, veloci e letali a dispetto della mole.

E poi c’è la nebbia, vera compagna di viaggio e quasi persistente tra i boschi del Maine, ben riprodotto nelle sue caratteristiche ambientali più iconiche. Non si tratta, è bene sottolinearlo, di una rivoluzione. Dal gioco base, Far Harbor eredita i pregi, ma anche i tanti difetti già rilevati da critica e videogiocatori. L’innalzamento qualitativo dei dialoghi non basta, da solo, a cancellare la carenza espressiva dei volti. Né il fascino dell’ambientazione riesce a nascondere le carenze tecniche del motore grafico, specie su console ancora afflitto da cali di frame rate più o meno pesanti. Eppure, proprio come Fallout 4, anche Far Harbor, meravigliosamente imperfetto, cattura il videogiocatore con le sue miserie umane e con le sue disgrazie senza quasi mai cedere a cadute di stile. Quasi mai, appunto. Non tutti, infatti, apprezzeranno l’introduzione di una sorta di mini gioco che, a circa metà della main quest, costringerà il giocatore ad una specie di hacking forzato di un sistema, forse poco adatto al contesto e al genere. Non tutti, anche, sapranno apprezzare la difficoltà tarata verso il basso e, quindi, una sfida poco impegnativa per qualsiasi personaggio oltre il livello 30. Eppure, chiunque abbia amato Fallout 4, non saprà resistere di fronte a Far Harbor, ai suoi misteri, alla sua nebbia. Alla bellezza di una passeggiata tra le querce ascoltando la voce di Skeeter Davis sulle note di The end of the World. Il sole, dannato sole, non arriva nel Maine e non bacia Far Harbor dove, però, c’è un sacco di altra roba