Ci sono giochi che ti colpiscono più per quello che raccontano che per come sono effettivamente realizzati, soprattutto a livello di gameplay. Little Nightmares è sicuramente un esempio di questo tipo di giochi. Il primo titolo solista di Tarsier Studio, già veterani di LittleBigPlanet, è una lettera d’amore alla letteratura con cui milioni di bambine e bambini in tutto il mondo sono cresciuti, da Roald Dahl fino ad arrivare a Neil Gaiman. La premessa è semplice, ma nasconde una vicenda molto più ampia: siete nei panni di una bambina di nome Six, vestita con un cappottino giallo che la fa assomigliare tanto alla Coraline della trasposizione in stop-motion di Henry Selick. La bambina si trova imprigionata all’interno di una gigantesca nave, chiamata Le Fauci, popolata da creature che hanno la simpatica abitudine di divorare tutto quello che possono. Scopo di Six sarà muoversi attraverso questa ambientazione e trovare la libertà, andando alla scoperta di un orribile segreto. La cosa che più mi ha colpito è che Little Nightmares non è un gioco particolarmente originale, anzi, deve molto a titoli come Limbo di Playdead, di cui rappresenta a tutti gli effetti un’evoluzione, pur ritagliandosi una fortissima identità propria.
PICCOLI BRIVIDI
A livello squisitamente meccanico, Little Nightmares è infatti un platform, con una discreta libertà di movimento ancorata tuttavia a un’asse orizzontale; scopo del gioco è andare avanti, risolvendo degli enigmi ambientali. Il bello del gioco è che Six è un personaggio molto limitato: non può correre molto velocemente, i suoi salti sono limitati, e non può trascinare oggetti troppo pesanti. Tutto questo contribuisce a creare un gameplay molto teso, in cui il giocatore si sente costantemente in tensione, perché da un momento all’altro potrebbe arrivare una minaccia in grado di schiacciarsi. Il senso di precarietà e pericolo che riesce a instillare pad alla mano, è uno dei risultati migliori ottenuti da Tarsier. Gli sviluppatori hanno anche ripreso più di un elemento da Limbo (con una spruzzata di Tomb Raider), soprattutto per quanto riguarda la fase di “game over”: la povera Six infatti può morire in tantissimi modi diversi, e questo crea una profonda connessione tra il personaggio e il giocatore, facendovi salire il classico magone. Assistiamo dunque a una perfetta e armonica sintonia tra premessa narrativa, level e game design, che cantano insieme per dare vita a una sinfonia unica. Infatti, con grande coerenza, tutto è basato sui contrasti: grande e piccolo, luce e oscurità, bene contro male.
I livelli sono costruiti per dare la sensazione di un ambiente ostile e incredibilmente più grande della protagonista, di conseguenza, la maggior parte degli enigmi sarà basata sulla necessità di superare ostacoli costituiti da elementi di tutti i giorni. Ed è così che un mobile diventa una pratica scala, o una cassa può rivelarsi provvidenziale per raggiungere un punto altrimenti irraggiungibile. Il livello di difficoltà dei puzzle è piuttosto semplice, almeno nelle fasi iniziali, per poi diventare più ostici andando avanti nell’avventura. Soprattutto nelle fasi avanzate del gioco, gli enigmi talvolta possono però rivelarsi piuttosto impegnativi. È pur vero che il gioco è molto onesto, dal momento che vi fornisce sempre tutti gli elementi per proseguire (in questo senso, gli sviluppatori hanno appreso un’importanza lezione da Portal). Il più delle volte, si tratta semplicemente di guardarsi intorno e usare gli strumenti ambientali che si hanno a disposizione. Non ho gradito invece il posizionamento dei checkpoint, soprattutto nelle fasi più strettamente legate al platforming: vi capiterà infatti di scivolare da una piattaforma per aver inclinato troppo il joystick, e di dover rifare tutto daccapo, il che spezza irrimediabilmente l’immedesimazione. Il platforming è volutamente macchinoso, perché i designer hanno voluto limitare le facoltà di Six, ma questa scelta, seppur coerente con la premessa narrativa, rischia di danneggiare un game design comunque ben congegnato. Se c’è una critica che posso muovere al titolo, è che non prende una posizione netta, alternando fasi in cui è necessario il controllo ad altre in cui di pura immedesimazione narrativa. Questo significa che chi gioca il titolo semplicemente per godersi la storia non avrà vita facile.
Apprezzabilissimo invece il modo in cui il gioco racconta in silenzio, sfruttando l’ambientazione. Il gioco vive non soltanto di puzzle, ma anche di momenti scriptati, soprattutto per quanto riguarda le fasi stealth. Six infatti non è certo Solid Snake, e non è in grado di combattere, anche perché i nemici sono altissimi rispetto a lei, per cui il più delle volte l’unico modo per superare questi passaggi è muoversi cercando di far meno rumore possibile. Le fasi stealth, a mio avviso, sono più decorative che effettivamente impegnative: i comportamenti dei nemici infatti sono piuttosto elementari, e le possibilità strategiche sono limitate, riducendosi il più delle volte semplicemente alla possibilità di lanciare un oggetto per provocare un rumore e far distrarre il vostro aguzzino. Questo non vuol dire che tali momenti non siano godibili, anzi, Tarsier riesce a creare l’illusione in maniera molto efficace, tenendo il giocatore sulle spine e facendolo realmente preoccupare per la sorte della piccola Six. Il gameplay, pur mantenendo un forte fil rouge per tutta la durata dell’esperienza, offre anche un discreto livello di varietà: ogni livello infatti è costruito intorno a un nemico, dotato di caratteristiche uniche, sia a livello estetico che di “funzionamento” vero e proprio. I livelli culminano anche in un’originale “boss fight”, dove la piccola Six, sfruttando a suo favore alcuni elementi dello scenario, potrà sconfiggere la minaccia che opprime il livello: è interessante come Tarsier sia riuscita a costruire questi scontri, che ricordano molto da vicino la classica fiaba di Jack e il fagiolo magico.
NELLA TANA DEL BIANCONIGLIO
Dove il gioco dà il meglio di sé è sicuramente dal punto di vista artistico: abbiamo già citato le ispirazioni letterarie di Little Nightmares, e anche a livello visivo il gioco deve molto alle trasposizioni cinematografiche di questi classici, oltre che ai migliori lavori di Tim Burton, con una spruzzata del maestro dell’animazione giapponese Hayao Miyazaki. Graficamente quindi il gioco si difende molto bene, grazie a un ottimo uso dell’Unreal Engine 4, ma è chiaro che si tratta di un titolo che punta a stupire più che altro per la bontà delle sue invenzioni che per la prestanza dei suoi “muscoli”. Gli artisti hanno fatto un lavoro magistrale nel costruire un’ambientazione cupa e senza speranza, trasformando in elementi inquietanti anche oggetti della vita di tutti i giorni, limitando al massimo i colori e rendendo gli elementi dello scenario sporchi, decadenti e desolanti. Magistrale anche l’uso delle luci, o meglio, della loro assenza. In più di un momento del gioco, infatti, l’illuminazione è davvero scarsa, e l’unica fonte di luce, in tanti passaggi, sarà solo un piccolo accendino che Six porta con sé. Il senso di minaccia costante deriva dall’impossibilità di sapere cosa nascondono le ombre: Tarsier è stata abilissima nel giocare con le paure che avevamo da bambini, come il buio o i mostri. Definire Little Nightmares un horror sarebbe un azzardo, ma allo stesso tempo certi passaggi saranno in grado di darvi il classico brivido lungo la schiena. Non mi piace parlare di parametri numerici come la lunghezza di un gioco, soprattutto quando si tratta di giochi così particolari, ma se proprio volete avere un numero, diciamo che ho finito il gioco in una decina di ore; l’avventura è piuttosto lineare, ma ci sono tanti segreti da scoprire, e i livelli invitano ad essere esplorati in lungo e in largo.
Little Nightmares è una summa di quello che la scena indipendente ha saputo regalarci negli ultimi anni, ma allo stesso tempo la sua capacità di giocare con elementi familiari ed elementi stranianti lo rende così particolare, parlando direttamente al “bambino interiore” del giocatore. È sicuramente un’avventura con una storia profonda da raccontare, il che è molto difficile da avere al giorno d’oggi, e i suoi momenti migliori sono a detta di chi scrive quelli in cui le meccaniche si prendono una pausa e l’accento viene posto, al contrario, sul coinvolgimento emotivo e narrativo. Paradossalmente, credo che il gioco avrebbe funzionato meglio regalando più momenti “esperienziali” piuttosto che legandosi alla risoluzione di puzzle, qualcosa, che per esempio, avevo già criticato in Unravel di Electronic Arts. Ciò non toglie che si tratta di un’eccellente prima prova da parte di Tarsier, che è stata in grado di tessere una storia che vi resterà nella testa anche dopo molte ore che avete finito il gioco. Da amante delle avventure narrative, e delle sperimentazioni indie, non posso che consigliarne vivamente l’acquisto.