La Storia della Realtà Virtuale inizia decisamente da lontano. Una vera e propria chimera inseguita da oltre duecento anni! Tanto tempo fa, su un pianeta piccolo piccolo, i pionieri della civiltà cominciarono a pensare che la realtà che li circondava, con tutti i suoi limiti fisici e le innumerevoli complicazioni normalmente legate ad una ordinaria esistenza gli andasse ormai troppo stretta. Sfruttando forme, intuizioni ed ogni altra fonte di stimoli rintracciabile nei dintorni, essi iniziarono dunque ad esplorare i più reconditi anfratti della propria creatività con lo scopo ultimo di creare uno strumento che potesse assecondare un irresistibile impulso di fuga. Questa riflessione ci aiuta a consolidare una certezza: le origini di Oculus Rift, come la stessa formulazione del concetto di Realtà Virtuale, sono molto più remote di quanto non si creda. Per individuare l’ideale punto di partenza della sperimentazione che ha recentemente permesso a Palmer Luckey di assemblare il suo prodigio è infatti necessario tornare indietro ai primi anni del XIX Secolo e alle intuizioni di pionieri visionari come Sir Edward Brewster, Thomas Edison e Morton Heiling. Per salutare, l’imminente lancio dell’ormai celeberrimo visore delle meraviglie, RetroVillage ha preparato per voi un intrigante viaggio alla scoperta delle origini di questa tecnologia, riportando alla luce i principali prototipi e i protagonisti di una tra sfide più ambiziose della storia umana.
1815 – CALEIDOSCOPIO
Perfezionato da Sir David Brewster nel 1815, il primo modello di Caleidoscopio moderno era costituito da un semplice tubo di legno (o rame) rivestito da specchi e frammenti di vetro colorati, all’estremità del quale veniva generalmente applicato un coperchio smerigliato rimovibile. Utilizzando il dispositivo a mo’ di cannocchiale, sarebbe stato possibile vedere l’ambiente circostante riflettersi in decine di strutture geometriche in grado di mutare e cambiare colore ad ogni eventuale rotazione del coperchio.
1832 – VISORE STEREOSCOPICO
Progenitore diretto dei nostri occhialini 3D lo stereoscopio sfruttava gli stessi principi alla base dell’attuale tecnologia tridimensionale per conferire profondità a coppie immagini statiche dalla differente cromia stampate su carta o vetro (i celebri “Stereogrammi”, NdR). Originariamente ideato da Sir Charles Wheatstone nel 1832, il primo stereoscopio della storia si presentava come un ingombrante alambicco costituito da particolari specchi: a trasformalo in comodo visore portatile in legno dotato di normali lenti ci avrebbe pensato il nuovamente Sir David Brewster.
1888 – KINETOSCOPIO
Considerato come l’antenato diretto del cinematografo, il Kinetoscopio venne ultimato da Thomas Edison nel 1888. Questo cassettone munito di visore a fronte permetteva difatti di assistere alla proiezione di cortometraggi impressi sulla pellicola contenuta nel suo chassis. Chiunque fosse curioso di provarne uno si procuri una copia di Bioshock Infinite: la città volante di Columbia né piena.
1957 – SENSORAMA

Schermo panoramico, dispositivo di movimento meccanico integrato nell’apposito seggiolino, ventilatori collocati ai margini dello chassis, suono stereo con tanto di vibrazioni annesse e un insolito generatore di aromi artificiali facevano del Sensorama il primo macchinario della storia che fosse in grado di ricostruire un’esperienza virtuale tanto avvolgente da coinvolgere tutti e cinque i sensi. Sviluppato nel 1957 e presentato ufficialmente al pubblico nell’autunno del 1962, il progetto riscosse subito un certo clamore, spingendo gli esperti a considerarlo come la nuova frontiera del cinema. Non appena la curiosità dei più iniziò a scemare, molti di essi iniziarono tuttavia a puntare il dito contro le sue evidenti limitazioni, giungendo infine a bollarlo soltanto come un “costosissimo giocattolo da Luna Park”. Parallelamente snobbato da una platea scientifica molto più interessata a sviluppare moduli di volo in grado di assicurare la riuscita del progetto Apollo (NASA), l’apparecchio creato da Morton Heiling uscì pertanto di scena in silenzio, lasciando in ogni caso ai posteri una cospicua eredità concettuale.
1968 – SPADA DI DAMOCLE
Molto più simile all’inquietante dispositivo oculare alla base del Trattamento Ludovico immortalato nel film “Arancia Meccanica” diretto da Stanley Kubrick nel 1971 e precedentemente citato nel medesimo romanzo scritto da Anthony Burgess nel 1962, la “Spada di Damocle” ideata da Ivan E. Sutherland era un ingombrantissimo dispositivo a base HMD (Head Mounted Display) tramite il cui visore era possibile esporre l’utente ad una serie di schematiche immagini geometriche generate al computer.
1977 – ASPEN MOVIE MAP
Sviluppato a Cambridge (Massachussets) presso il prestigioso MIT, l’Aspen Movie Map si avvaleva dell’ausilio di filmati interattivi e curiosi giochi prospettici per consentire all’utente di “visitare” una rudimentale ricostruzione della cittadina di Aspen (Colorado, USA). Per quanto stupefacente, l’esperienza offerta da questo dispositivo non risultò abbastanza efficace da giustificarne i costi ed esso venne pertanto accantonato con una certa fretta. La sperimentazione del prototipo sarebbe in ogni caso proseguita nel settore militare, favorendo non soltanto lo sviluppo dei visori in grado di rilevare fonti di calore e illuminare aree altrimenti buie, ma anche la creazione dei primi simulatori multi-sensoriali impiegati da U.S. Air Force, NASA e U.S. Navy per addestrare piloti e paracadutisti.

1987 – SEGASCOPE 3D GLASSES
Sviluppati da Sega nel 1987 in occasione del lancio di Maze Hunter 3D (1988, Master System) i Segascope 3D Glasses costituirono uno dei primi, concreti tentativi di abbinare l’uso di occhiali steorscopici ai videogame. Basati sui medesimi principi della vecchia tecnologia fotogratica essi cercavano di ottimizzarne il funzionamento mediante l’aggiunta di un semplice sistema elettromeccanico in grado di alternare rapidamente la chiusura delle rispettive lenti.

Questo processo permetteva di visualizzare immagini stereoscopiche e creare di rimando un illusione di tridimensionalità che, spesso, risultava tuttavia disturbata da un effetto ottico che oggi definiremmo come “flickering”. Impiegata soltanto in un ristretto numero di progetti, caratterizzati peraltro da scarso successo, la periferica fu presto dismessa e con essa andarono temporaneamente in archivio anche tutte le velleità vantate dalla casa di Osaka in quella particolare branca della ricerca.
1991 – LINEA VIRTUALITY
Nel 1991, il visionario case di Dactyl Nightmare debuttò nelle più attrezzate sale giochi statunitensi. Sviluppato dalla Virtuality (o W Industries, NdR) mediante l’impiego di un engine poligonale privo di alcun sistema adibito alla mappatura delle texture, il gioco andava sviscerandosi lungo dinamiche FPS asservite ad un elementare format a là “Capture The Flag”. Predisposti al supporto di un massimo di 4 utenti, i cabinati comprendevano un’ampia pedana munita di corrimano, un ergonomico Joystick per molti versi simile all’odierno Wiimote Nintendo e un pesante dispositivo HMD provvisto di auricolari stereofonici: il costo di una singola partita poteva orbitare tra i 5 e i 10 dollari dell’epoca.

Inizialmente basati sulle prestazioni di computer Amiga 3000 i Coin-Op sviluppati dalla Virtuality vennero divisi in due serie denominate 1000CS e 1000SD. Oltre a Dactyl Nightmare, la prima di esse constava dello shoot-em up robotico Grid Busters (1991), il puzzle Hero (1991), il fantasy hack’n slash Legend Quest (1991) e il simulatore aeronautico VTOL (1991).

La serie 1000SD comprendeva, invece, solo 3 titoli: lo space-shooter Battlesphere (1991), il simulatore di mech Exorex (1991)e il racing game Total Destruction (1991). Nel 1994, la Virtuality avrebbe prodotto anche una serie 2000SU, basata stavolta su processore Intel 486. Tra i giochi distribuiti in questo formato figurarono Dactyl Nightmare 2 – Race for the Eggs! (1994), lo shooter Zone Hunter (1994) e Pac-Man VR (1994).
1995 – VIRTUAL BOY NINTENDO
Presentato allo Shoshinkai Expo di Tokio nel luglio del 1995, il progetto Virtual Boy (in principio noto come VR-32, NdR) venne inizialmente accolto con un certo ottimismo: fino ad allora, ogni hardware sviluppato nelle fucine della Nintendo aveva d’altronde riscosso un successo così eclatante da escludere a priori la possibilità di un fallimento.Il sospetto che, durante il suo sviluppo, qualcosa non fosse andata per il verso iniziò tuttavia a palesarsi ben presto e più precisamente in concomitanza della presentazione americana tenutasi al successivo C.E.S. di Los Angeles , quando furono cioè svelati alla stampa i titoli destinati ad accompagnarne il lancio.

Ben lungi dal rivelarsi in grado di offrire prestazioni tali da appagare le aspettative di un pubblico ansioso di rivivere in salotto le medesime esperienze visive immortalate ne “Il Tagliaerbe”, la macchina si limitava difatti a conferire illusoria tridimensionalità alle immagini servendosi del medesimo concetto alla base dei vecchi visori stereoscopici, lasciando peraltro fuori dall’equazione ogni eventuale riferimento a quegli Engine poligonali su cui nascituri sistemi quali Sega Saturn e Playstation puntavano già tutto. Come se non bastasse, l’efficacia del gioco prospettico legato al posizionamento delle lenti bipolari installate nel visore della macchina, sarebbe inoltre dipesa dal forzato impiego di una palette cromatica ridotta a due sole tonalità, il rosso e il nero: un dettaglio, questo, che avrebbe congelato gli entusiasmi di chiunque e gettato una lunga ombra sul futuro del sistema.

Quando il Virtual Boy propiziò il suo debutto sugli scaffali dei negozi giapponesi e americani, nell’estate del 1995, tutte le più fosche previsioni della stampa trovarono brusca conferma. Per la prima volta nella sua storia, Nintendo si ritrovò dunque ad assaporare l’amarissimo gusto del flop e ciò avrebbe chiaramente avuto conseguenze fatali, prima fra tutte, il brusco ritiro della console dal mercato statunitense. A questa drastica decisione seguì, appena un anno dopo, la definitiva archiviazione del progetto, le cui vendite si erano comunque arenate da tempo sulla pallida soglia delle 770.000 unità.
1995 – VFX-1 HEADGEAR

Sviluppato dalla Forte Technologies nel 1995, il VFX-1 fu il primo HMD a garantire il pieno supporto di un’esperienza VR immersiva, con tanto di feedbak sonori, lettura dinamica dei movimenti del capo, schermi LCD a colori e interfaccia di controllo dedicata (il Cyberpuck). Grazie a prestazioni leggermente superiori agli standard, il dispositivo riuscì a ritagliarsi un certo seguito in ambito PC, dove trovò applicazione nell’ambito di oltre 100 produzioni, eppure non riuscì mai ad imporsi come una periferica realmente necessaria. Secondo alcuni, il suo fallimento sarebbe stato da ricondursi anche ad effetti collaterali di tipo fisiologico: dopo pochi minuti di gioco, molti utenti tendevano infatti a lamentare vertigini, nausea e mal di testa.

1996 – CYBERMAXX

Prodotto nel 1996 dalla Vectormaxx Technologies, il Cybermaxx HMD abbinava al supporto di due schermi TFT Active Matrix targati Matshushita un complesso sistema di 3D Motion-Tracking al, tramite il quale il dispositivo sarebbe stato in grado di riconoscere i movimenti del capo dell’utente e riprodurli in ambiente virtuale. Viziata da un fastidioso ritardo di esecuzione sensibile, questa feature si rivelò più una fonte di problemi che un valore aggiunto, tanto da compromettere ogni eventuale tentativo di applicare la periferica ad un contesto videoludico di ordine commerciale.
2016 – OCULUS RIFT: UNA NUOVA SPERANZAIl fallimento di progetti quali Virtual Boy, VF1 e Cybermaxx sarebbe stato tanto clamoroso da sdoganare la convinzione generale che la Realtà Virtuale fosse una chimera sostanzialmente irraggiungibile e che il suo stesso utilizzo nel ramo videogame rappresentasse una prospettiva ancor più inattuabile. Se vi eravate chiesti come mai Oculus Rift sia giunto negli stand E3 soltanto nel 2013 e che da quel disgraziato 1995 ad oggi quasi nessuna azienda avesse investito fondi nello sviluppo di un progetto che ne condividesse gli obiettivi ora avete pertanto una risposta.

Grazie all’impegno profuso nella sperimentazione da Palmer Luckey e soci, il sogno della VR è tuttavia tornato ad stregare l’immaginario di tutti e bisogna ammettere che, mai prima di ora, si è avuta la sensazione che la rivoluzione inseguita per tanto tempo fosse così a portata di mano. A prescindere dalle polemiche sorte negli ultimi giorni riguardo l’elevato prezzo di lancio del visore e i dubbi avanzati ancora da molti riguardo i suoi effettivi campi d’applicazione, i prossimi mesi si riveleranno ad ogni modo cruciali: se Oculus Rift dovesse fallire ci ritroveremmo difatti costretti a chiudere nuovamente sogni e ambizioni nel cassetto. In caso contrario, il mondo come noi lo conosciamo potrebbe invece registrare una svolta pressoché equivalente a quella determinata dall’arrivo di Internet e il parallelo inizio di una nuova Era di conquiste.