Dolcetto o scherzetto per EA?
Parlare di Medal of Honor: Warfighter è come redigere un bollettino di guerra: ormai, con cadenza quotidiana, la lista di bug viene aggiornata dai fan sempre più sconsolati. Nonostante una prima sostanziosa patch del peso di 208 MB (disponibile al “day one”), la situazione invece che migliorare sembra via via peggiorare (gli ultimi problemi riguardano i collezionisti di Achievement per Xbox 360 e di Trofei per PS3).
Dopo il reboot non proprio esaltante della serie nel 2010, attendevamo con molta apprensione il nuovo Medal of Honor: Warfighter. Electronic Arts, due anni fa, per creare un vero e proprio blockbuster aveva affidato la produzione del gioco a due differenti team, uno impegnato nella creazione della campagna single player, l’altro dedicato allo sviluppo di un multiplayer che potesse reggere l’urto degli sparatutto made in Infinity Ward/Treyarch. Purtroppo, il tentativo non è andato a buon fine e Medal of Honor è riuscito nell’impresa di scontentare sia gli amanti del gioco in singolo, sia quelli votati al multiplayer competitivo/cooperativo. Per il nuovo restyle il colosso californiano si è affidato “chiavi in mano” al team Danger Close (ex EA Los Angeles) e il risultato finale ha destato da queste parti più di una perplessità. Vediamo perché.
LA SOLITA STORIA
Medal of Honor: Warfighter racconta la storia dell’operatore Tier 1 “Preacher”, un soldato super specializzato delle Forze Speciali statunitensi che si trova costretto a ritornare in azione per debellare una nuova minaccia terroristica, sacrificando – ancora una volta – la propria famiglia (per la serie “il lavoro fa male”). La campagna single player, nonostante qualche apprezzabile missione, un po’ di sano patriottismo (a stelle e strisce, sia chiaro) e un tocco di drammaticità in perfetto stile telenovela (il buon Preacher impegnato a salvare il suo matrimonio e la sua patria) non offre molto per farsi ben volere dal giocatore. Come durata siamo nella media degli ultimi capitoli della serie Call of Duty, e non si va molto in là delle solite 5/6 ore (in base al livello di difficoltà selezionato) per un totale di 13 missioni. La sceneggiatura fa un ampio sfoggio di spettacolari flashback tra passato e presente per cercare di dare un minimo di spessore ai personaggi; non manca poi un tocco di drammaticità che accompagna le vicende famigliari dei protagonisti della storia, anche se questa scelta narrativa non fa altro che confondere ulteriormente il giocatore, che rimane “stupito e perplesso” difronte all’eccessiva linearità delle missioni e alla poca originalità della trama che, vale la pena ricordarlo, presenta per la “milionesima” volta la solita minaccia terroristica mediorientale da sventare. Risulta difficile nel corso delle missioni emozionarsi o mostrare un po’ di meraviglia dinnanzi ai “cliffhanger” proposti, anche perché si risolvono in quasi sempre modo scontato.
Le missioni, pur facendo un ampio uso di “script”, nel complesso riescono a offrire al giocatore un minimo di varietà: tra frenetici inseguimenti in auto (ben fatti), robusti corpo a corpo a colpi di ascia e un po’ sano cecchinaggio, siamo in perfetta media da FPS. Le operazioni speciali spediscono il giocatore e il suo team nelle zone più calde del pianeta: Bosnia, Yemen, Somalia, Pakistan e Filippine e altre fantastiche località di villeggiatura…
QUATTRO RISATE IN COMPAGNIA
L’Intelligenza Artificiale recita in modo approssimativo sul palcoscenico di Medal of Honor: Warfighter: i compagni non brillano per varietà nelle tattiche belliche e la stessa cosa accade anche tra le fila dei nemici, con alcuni risvolti a dir poco comici. Piccolo excursus dedicato a chi – come il sottoscritto – ha avuto la fortuna (o sfortuna, dipende dai punti di vista) di prestare servizio nell’Esercito: vi ricordate le interminabili sessioni al poligono, con tanto di commilitoni che lasciavano immacolato il proprio bersaglio e i vicini di piazzola che si trovavano con il doppio dei colpi sulla sagoma da centrare? E come non ricordare il lancio della granata con la maledettissima spoletta da togliere in tempo? In Medal of Honor: Warfighter abbiamo un uso smodato di granate da parte della CPU in qualsivoglia situazione tattica, interi caricatori scaricati addosso ai soldati nemici senza colpo ferire e, per non farci mancare nulla, cattivoni che muoiono prima di essere colpiti dai proiettili, personaggi che restano bloccati in stanze senza poter uscire e un sistema di copertura poco efficace. E quando si fa irruzione in un qualsivoglia locale, c’è persino una specie di mini gioco per demolire la porta non proprio riuscitissimo.
Per quanto concerne il realismo bellico, poi, ho trovato discutibile l’idea di fornire al giocatore proiettili “infiniti” quando si trova a impugnare l’arma secondaria (una pistola); oltre a questa, tuttavia, ci sono altre piccole scelte di gameplay che non mi hanno particolarmente convinto. E le perplessità aumentano se consideriamo che Danger Close si è affidata per sviluppare la trama e per rendere l’esperienza bellica ancor più realistica a consulenti che hanno prestato servizio nelle Forze Speciali statunitensi, come alcuni ex veterani dei Navy Seal.
MEGLIO IN COMPAGNIA
Dopo aver provato il single player, ho cominciato a sperare che i ragazzi di Danger Close avessero sparato tutte le cartucce sul comparto multiplayer: la sensazione è diventata via via una certezza dopo aver affrontato le prime scaramucce online. A dettare legge c’è sempre il buon vecchio Battlelog via Origin: una volta selezionato il proprio soldato tra le dodici forze speciali disponibili (tra le più famose troviamo i Navy Seal, SAS, KSK, e Spetznas), non resta che selezionare la classe con cui giocare tra le sei disponibili, ovvero Assaltatore, Commando, Cecchino, Incursore, Artigliere e Demolitore. Come sempre è necessario totalizzare un buon numero di uccisioni per ottenere punti e sbloccare così altre classi e potenziamenti per i propri uomini: a livello di personalizzazione (tra armi, equipaggiamento, azioni di supporto e altro ancora), non posso proprio lamentarmi.
Medal of Honor: Warfighter in multiplayer si fa apprezzare sin dalle prime partite per una predilezione per il gioco in cooperativa e per un ritmo sostenuto negli scontri a fuoco. L’introduzione dei cosiddetti “Fireteam”, per esempio, mi è parsa azzeccata: si tratta di squadre composte da soli due elementi che combattono fianco a fianco all’interno di altri gruppi del proprio plotone. In coppia con un amico (o con la CPU) è richiesto un buon affiatamento per sopravvivere agli scontri a fuoco, ed è fondamentale sapere in ogni istante se il vostro partner necessita di cure o munizioni. Quando uno dei due viene ucciso, le possibilità per il respawn sono due: si può utilizzare l’opzione “ripiegare” oppure quella “compagno/comparsa”. Nel primo caso si ritorna al punto di partenza; nel secondo si viene spediti in prossimità del vostro partner co
n un’altissima probabilità di essere seccati un’altra volta. È importante combinare bene le classi del proprio “Fireteam” (è consigliabile dare un’occhiata alla topologia della mappa da affrontare) per avere una squadra affiatata ed equilibrata. All’inizio, l’unica classe disponibile è quella dell’Assaltatore.
Le mappe sono otto e presentano un level design discreto con spazi aperti che si alternano a giganteschi ambienti chiusi: tra le più apprezzate vi segnalo lo stadio di Sarajevo, le dune di Hara e la fortezza somala. Le modalità di gioco sono costruite attorno ai già esposti Fireteam e offrono qualche spunto interessante tra i classici Deathmatch a squadre, Controllo settori e Casa base. Punti Caldi e Missione di Combattimento puntano tutto sulla cooperazione e sorprendono per tatticismo e per ritmo di gioco.
E IL FROSTBITE?
Trattandosi di un gioco che monta il motore Frostbite 2.0 di DICE mi aspettavo molto di più. Le texture sono poca roba (è necessario installare su console un pacchetto aggiuntivo), mentre la qualità dei modelli poligonali e le animazioni dei soldati sono un po’ troppo altalenanti. I filmati di intermezzo, invece, sono spettacolari, mentre il fattore “distruttibilità” dello scenario è lontano anni luce da quanto visto in Battlefield 3. E non mancano all’appello compenetrazioni poligonali, nemici che appaiono e scompaiono magicamente, soldati che corrono sul posto e altri simpatici bug non porprio da titolo tripla A. Per quanto riguarda il comparto audio il doppiaggio in italiano non è affatto male, la colonna sonora made in Linkin Park è gradevole, mentre gli effetti sonori sono decorosi, ma nulla di paragonabile ai traccianti che sibilano in Battlefield 3.