Raccontare la storia del Magnavox Odyssey mentre l’ottava generazione di sistemi da gioco vive il suo apice, equivale un po’ a rispolverare i piani di volo dei fratelli Mongolfiere sulla soglia della prima missione spaziale volta alla conquista di Marte. Da un lato non si può che rimanere affascinati dall’ingegno e la lungimiranza alla base del progetto, dall’altro si fa quasi fatica a credere che, in intervalli di tempo così brevi, si sia riusciti a colmare le distanze concettuali che separavano le condizioni di partenza da quelle acquisite oggigiorno.

Al netto di limitazioni tecniche marchiane, di errori progettuali probabilmente inevitabili vista l’assenza di precedenti empirici e di un fallimento commerciale tanto grave da offuscarne la memoria storica, la macchina ideata da Ralph H. Baer alla fine degli anni ’60 rappresenta un esperimento seminale nella storia del settore videoludico, in assenza del quale la sfera dell’Home Entertainment avrebbe atteso chissà quanti altri anni prima di riconoscere in quest’ultimo una riserva creativa inesauribile. Ecco perché, a oltre quarant’anni dall’accaduto, è fondamentale rinverdirne il ricordo ed analizzare con opportuna generosità le sue innegabili conquiste.
Origini
Il progetto Odyssey nacque intorno al 1968 come ideale concretizzazione di una teoria coltivata per anni dall’ingegnere elettronico Ralph H. Baer secondo cui i televisori avrebbero potuto favorire una forma di intrattenimento alternativa alla funzione tradizionale.

La sua ricerca prendeva spunto da un suo esperimento pregresso risalente al 1967 chiamato Bucket Filling Game, attraverso il quale egli aveva dimostrato che, se supportato da un dispositivo apposito, anche un comune TV da salotto sarebbe stato in grado di gestire uno schema di gioco interattivo simile al noto Tennis for Two sviluppato nove anni prima dal professor William Higinbotham, servendosi di un computer analogico Donner 30 e un oscilloscopio. La realizzazione di quello che passò successivamente alla storia come il primo prototipo di console mai realizzato richiese oltre 2 anni di sviluppo e si risolse solo intorno al 1970 nel prodotto che Baer battezzò come Brown Box.

Alla prima presentazione ufficiale seguirono lunghe trattative economiche volte ad individuare un’azienda cui affidarne un eventuale produzione in serie: non appena la Magnavox si assicurò l’esclusiva licenza, si resero quindi necessarie ulteriori contrattazioni legate alle eventuali modifiche da apportare al brevetto onde ottimizzare i costi del processo di commercializzazione e individuare il nuovo nome da attribuire alla macchina.
Debutto & Killer Application
Rivelato al pubblico il 24 maggio del 1972, il Magnavox Odyssey venne distribuito negli Stati Uniti a partire dall’agosto seguente dopo un’incoraggiante serie di test di mercato regionali. Forte di questi dati, la compagnia mise a disposizione dei rivenditori uno stock iniziale di 50.000 unità, salvo poi raddoppiarne il numero non appena ottenuti i primi, positivi riscontri vendite.

A trainare l’iniziale successo del progetto, l’indiscutibile fascino dell’inedito e, più trivialmente, l’impatto registrato sui più da Table Tennis: versione rivista e corretta del succitato Tennis for Two e antenato diretto del mitico Pong targato Atari. Basato sui medesimi principi strutturali, il gioco viveva di meccaniche speculari, ma non disponeva di un contatore punteggi a video che scandisse l’evolversi delle partite.

Da qui la necessità di utilizzare un escamotage fisico, come l’inclusione di dadi, fiches e altri segnapunti nella confezione della console. Onde aggirare le evidenti limitazioni tecniche del sistema ed arricchire format di gioco essenzialmente basati su variazioni più o meno efficaci del modulo di Table Tennis, la Magnavox sarebbe ricorsa all’implemento di accessori esterni anche in occasione degli altri 11 titoli presenti sulle due schede software in dotazione alla console, finendo anche per affidarsi ai classici overlay grafici da incollare allo schermo.

Con la successiva release software risalente al 1973, vi sarebbe stato inoltre spazio anche per il supporto di un avveniristico fucile ottico – lo Shooting Gallery – concepito espressamente per esaltare il gameplay di alcuni titoli a tema; ma a conti fatti l’esperienza ludica offerta dall’Odyssey sarebbe comunque rimasta troppo essenziale per resistere al morbo della ripetitività.

Alla promettente partenza del progetto seguì, in tal senso, una flessione inesorabile che acquisì i toni dell’irreversibilità alla luce di complementari errori perpetrati in campo marketing. Prima di dedicarci all’analisi di questi ultimi e trarre le dovute conclusioni sullo striminzito triennio che separò il debutto della console dalla sua dismissione, vale in ogni caso la pena di fare una piccola deviazione in tribunale…
Tempesta giudiziaria
In barba all’unicità della proposta Odyssey, il progetto non suscitò grosso interesse ai piani alti dell’industria informatica, tanto che nessuno dei brand di prima fascia come ad esempio IBM o Texas Instruments avvertì l’esigenza di esprimere neanche un parere a riguardo. Le potenzialità della macchina non sarebbero tuttavia sfuggite al più scaltro Nolan Bushnell, futuro Re Mida del settore videoludico in qualità di CEO Atari.

Dopo aver assistito ad una dimostrazione pubblica nell’ambito di una nota kermesse elettronica, l’imprenditore statunitense si mise pertanto al lavoro su un concept che, prendendo (fin troppo) spunto da Table Tennis, potesse garantirgli quel successo mediatico che il suo precedente prodotto, Computer Space, non era stato in grado di assicurargli. Questa operazione sarebbe germogliata qualche tempo dopo nel varo del leggendario Pong, nonché in un trionfo commerciale di entità tale da oscurare completamente l’opera di Baer.

Come facile prevedere, i vertici Magnavox non stettero comunque a guardare e dopo aver denunciato Atari per violazione del brevetto di Table Tennis, si aggiudicarono la causa costringendo Bushnell ad un ingente patteggiamento economico. Quando il format di Pong venne a sua volta ripreso da aziende come Coleco, Activision, Mattel e Nintendo, i mecenati di Baer avrebbero dunque battuto nuovamente cassa, vincendo altrettante battaglie legali. Ciò nonostante dette affermazioni non contribuirono ad alcun ritorno d’immagine mediatica.
Uno sfortunato equivoco
Al di là di ogni legittima azione legale intrapresa ai fini di tutelare il progetto e preservarne il potenziale commerciale, l’Odyssey non sarebbe comunque riuscito mai ad imporsi sul mercato. In relazione alle sole 330.000 unità piazzate in tutto il mondo nell’arco di 3 anni, si può anzi classificarlo come uno dei più grandi flop della storia di questo business. Le ragioni di questo insuccesso sono chiaramente molteplici e vanno identificate in una serie più o meno nutrita di errori strategici figli alla particolare natura pionieristica del progetto. In assenza di un vero e proprio target di riferimento o di qualsiasi un bacino d’utenza acquisito, la console dovette innanzitutto fronteggiare il muro di ignoranza tecnologica caratterizzante il pubblico del tempo.
A questo fattore, andò dunque ad aggiungersi una maldestra campagna promozionale destinata ad alimentare l’errata convinzione secondo cui la macchina funzionasse soltanto se collegata ad un televisore di marca Magnavox: in un’epoca in cui l’acquisto di un televisore costituiva un investimento ingente anche per le famiglie più facoltose, una sfumatura del genere poteva ovviamente costituire un deterrente notevole. Non è in tal senso difficile ipotizzare che molti persero interesse nel prodotto non appena caduti nell’equivoco.

Sommando al tutto un prezzo di base piuttosto alto – circa 100 dollari dell’epoca – l’eventuale spesa extra legata all’eventuale acquisizione dello Shooting Gallery e la comunque esigua quantità di software disponibile, possiamo pertanto completare l’identikit di una debacle se non annunciata, difficilmente evitabile.
Successori e Retaggio
Annali alla mano, la dipartita del progetto Odyssey coinciderebbe con l’autunno del 1975, anno in cui una Magnavox fresca di acquisizione da parte di Philips interruppe ufficialmente produzione e rispettiva distribuzione della console. Per la cronaca è in ogni caso doveroso rimarcare che l’ideale anima del progetto sarebbe sopravvissuta fino al 1977, grazie al varo di ben 8 differenti varianti speciali del format originario.

I modelli 100, 200, 300, 400, 500, 2000, 3000 e 4000 dell’Odyssey – cui andrebbero affiancati anche il 200, 2001 e 2100 distribuiti direttamente sotto il marchio Philips – abbinarono ad un ciclico restyling estetico della stessa, differenti migliorie tecniche e l’applicazione di altrettante variabili legate al sistema di controllo, ma nessuno di essi riscosse un successo paragonabile a quello registrato dal Pong casalingo di Atari.

Nel 1978, alla cancellazione del modello 5000, seguì dunque la produzione dell’Odyssey2 (o Philips Videopac, in Europa. NdR) che, in virtù un’architettura in grado di competere con sistemi quali Fairchild Channel-F e lo stesso Atari VCS 2600, riuscì a sopravvivere ai margini del core business fino al 1984, piazzando la ragguardevole cifra di 2 milioni di unità worldwide. Un dato, questo, che aggiunge senza dubbio un pizzico di rimpianto rispetto a ciò che l’Odyssey avrebbe potuto diventare in circostanze storiche più favorevoli.
Epilogo
La parabola dell’Odyssey viene ad oggi ritenuta colpevolmente come un capitolo “minore” – se non addirittura trascurabile – dell’evoluzione di quest’industria videoludica, tanto che in molti continuano a riconoscer il ruolo di Avatar del settore Console al ben più “recente” Atari VCS 2600.

Come abbiamo avuto modo di sottolineare nell’ambito di altri approfondimenti tematici, la Storia tende d’altronde ad essere matrigna con i pionieri e fin troppo generosa con chi trae beneficio dalle loro scoperte. Fortuna che determinate gerarchie vengano in qualche modo ristabilite dai collezionisti, che di Magnavox Odyssey sono ghiotti, o magari da qualche scapestrato retrogamer pronto a rivendicarne la straordinaria rilevanza storica appena possibile.