Ci sono autori che, con le loro opere, hanno segnato per sempre l’evoluzione di un medium. David Cage, game developer, scrittore e musicista francese, è senza dubbio uno di questi. Giunto al suo quinto lavoro, era chiamato alla prova più impegnativa: sintetizzare tutte le sue intuizioni e innovazioni in un modello nuovo, più funzionale ed efficace, recuperando la genialità iconoclasta di Omikron: The Nomad Soul (Eidos, 1999), la forza narrativa impura di Fahrenheit (Atari, 2005) e la devastante potenza espressiva di Heavy Rain (Sony, 2010), facendo dimenticare il passo falso di Beyond: Due Anime (Sony, 2013), claudicante guazzabuglio di situazioni e soluzioni decisamente poco presentabile. La soluzione al quesito di Quantic Dream? La più logica: trasformare Kara (2012), cortometraggio capolavoro, evocativo, struggente e toccante, in un’opera interattiva vera e propria, un videogioco di fantascienza ambientato nella Detroit del 2038 che ruota attorno al tema degli androidi (robot dalle sembianze umane), un classico del genere sci-fi.
L’immortale Isaac Asimov
Tutti tendono a citare le celeberrime tre leggi della robotica che Isaac Asimov, forse il più grande scrittore di science fiction di tutti i tempi, inventò nei suoi romanzi, secondo le quali un robot non può fare del male a un essere umano. Eppure, nell’accostarci a Detroit: Become Human, io preferisco ricordare la Legge Zero, che il grande romanziere americano svelò più tardi, come geniale e inattesa svolta di trama: “Un robot non può recare danno all’umanità, né può permettere che, a causa del proprio mancato intervento, l’umanità riceva danno”. Le implicazioni sono evidenti: se per salvare l’umanità occorre uccidere una singola persona, o anche di più, questo atto di per sé esecrabile diventa tollerabile, lecito… anzi, doveroso. L’umanità, dunque. Che concetto affascinante, quello di “umanità”, sembra volerci ricordare David Cage. Cogito ergo sum, asseriva il filosofo e suo conterraneo Cartesio, qualche secolo addietro: penso, dunque esisto. Ma se le macchine sono così complesse da pensare, quindi, diventano persone? Esistono? C’è forse una differenza ontologica tra la nostra intelligenza (anima?) e una sofisticata I.A.? Come molte opere di spessore, Detroit non fornisce risposte nette, preferendo semmai suggerirle, o ancor meglio dedicandosi a instillare dei dubbi nelle nostre coscienze. Perché il tema caldo, il cuore del problema, è tutto lì: in un mondo popolato da androidi, utilizzati in tutti gli ambiti e di fatto indistinguibili da noi, che cosa accade se si ridefinisce il concetto di “umano”, tracciando nuovi confini, spostando una frontiera invisibile che è al tempo stesso politica, sociale ed etica? Potenzialmente, la più grande rivoluzione. Ciò che non è più un semplice oggetto frutto di scienza e tecnologia, non più essere utilizzato, ma assurge a titolare di diritti civili, soggetto in grado anche di aggregarsi e, come popolo, autodeterminarsi. Se l’uomo è creatore e deus ex machina degli androidi, nel momento in cui costoro provano empatia, sviluppano autocoscienza e si affrancano da routine e algoritmi rigorosi, egli deve concedere loro il libero arbitrio. Altrimenti, le conseguenze potrebbero essere devastanti, come sperimenterete in Detroit: Become Human.
Il viaggio del deviante
David Cage, questa volta coadiuvato nella scrittura dal talentuoso Adam Williams, racconta la sua epopea interattiva attraverso tre protagonisti, tutti androidi: Kara, la ragazza già vista nella omonima e commovente demo tecnica del 2012, Markus e Connor. Se i primi due sono sostanzialmente dei domestici (Kara si occupa di una famiglia disfunzionale costituita da un uomo violento e la sua bambina; Markus di un vecchio artista dal cuore d’oro), Connor è invece il più sofisticato modello di androide prodotto dalla onnipotente corporation Cyberlife, impiegato a fini investigativi. Si dà il caso infatti che si verifichino, come sperimentiamo già nella primissima scena, una serie di strani fatti: androidi che, contravvenendo alle loro regole di programmazione, si comportano in modo autonomo e imprevedibile. Tali robot vengono chiamati “devianti”, ed è proprio questo il filone dell’indagine che saremo chiamati a effettuare affiancati a Hank, un vecchio detective della polizia di Detroit che, per usare un eufemismo, non è proprio entusiasta di trovarsi un “pezzo di plastica” come partner. Le tre storie si svilupperanno e si incroceranno, influenzando ciò che accade a Detroit, negli USA e nel mondo, in un crescendo di tensione ed emozione che ci accompagnerà per una media di almeno una dozzina di ore, su oltre 30 capitoli di gioco. Ma come è strutturato, questo Detroit: Become Human? In verità, il modello è saldamente (e, a mio avviso, correttamente) quello già intuito da David Cage in Fahrenheit e canonizzato nel più raffinato e mainstream Heavy Rain, poi ripreso da molti studi di grido, da Telltale a Dontnod, per citare solo i più noti. Parliamo quindi di una esperienza interattiva incentrata sulla narrazione pura, che ha come ragione di interesse il vivere scelte e situazioni emotivamente coinvolgenti, plasmando un grande racconto nel modo che il nostro cuore ci detterà, sempre secondo le linee autoriali saldamente fissate da Quantic Dream. Non accostatevi dunque a Detroit: Become Human con il piglio di chi compra uno degli innumerevoli videogiochi tutti sbilanciati sul versante della sfida e delle pure meccaniche di gameplay, perché sareste inevitabilmente destinati a restare delusi, traditi non già dal signor Cage, ma dal vostro poco cauto e informato acquisto, magari finendo (non sia mai) per cadere nella situazione di criticare l’artista transalpino di creare finti videogiochi che ambiscono a essere film, un classico attacco che qualifica di norma i commentatori più sprovveduti o ignoranti. Qui, è bene ripeterlo, ci troviamo dinanzi un mondo che si esplora con deliberata lentezza, al ritmo dettato dall’autore, che si snoda attraverso decisioni morali da compiere e che fa uso con buona frequenza degli ormai classici quick time event (sequenze più o meno frenetiche nelle quali dovrete premere in breve tempo i comandi che compaiono a schermo per procedere oltre con successo), che servono a rappresentare nel modo più conveniente le sequenze d’azione imprescindibili per il genere narrativo scelto da David Cage e dal suo team.
Per aspera ad astra
Attenzione, però: fatemi essere estremamente chiaro. Detroit: Become Human non è Beyond: Due Anime e neppure Heavy Rain… e lo affermo come un grande complimento. Quantic Dream ha saputo far tesoro degli errori commessi (specie in Beyond) e degli esempi di gioco mostrati da altri studi in questi anni, dimostrando non solo maturità artistica, ma anche intelligente umiltà. Anche il padre di un nuovo genere come quello delle avventure esperienziali (che rinunciano cioè al modello di gameplay classico delle “avventure” basato su esplorazione ed enigmi) può e deve crescere, correggere il tiro e fare tesoro di strumenti, idee e soluzioni mostrate al mondo da altri studi e autori. Di fatto, David Cage e Quantic Dream hanno risolto brillantemente e per un buon 90% tutti i piccoli e grandi problemi che affliggevano le loro opere. Non parlo tanto delle incrementate varianti narrative che possiamo vivere (qui davvero numerosissime), ma dei modi di scelta, finalmente attivi e ragionati, non (quasi) solo passivamente determinati dal buono o cattivo esito di un QTE. In un titolo come Detroit: Become Human, il fruitore (giocatore è un termine che sta davvero stretto, in casi del genere) pretende di essere realmente artefice del suo destino, e in Detroit, finalmente, lo sarà in pieno e con assoluta soddisfazione. Ciò significa che anche il sistema dei QTE è stato migliorato, grazie a un più corretto uso del livello di difficoltà, che se settato su “facile” permette finalmente davvero di rendere l’esperienza interattiva accessibile anche a un pubblico di non videogiocatori, intenzione sempre espressa da Cage, che mira (giustamente) a tutti coloro che amano una buona storia e un coinvolgimento emotivo forte e che, dai tempi di Heavy Rain, segnala con allarme come la gran parte dei videogiochi narrativi vengano portati a termine da meno della metà degli acquirenti, fenomeno impensabile in altri ambiti artistici (pensiamo al cinema, al fumetto o alla letteratura, dove, di norma, quasi tutti arrivano a sperimentare la fine dell’opera fruita). Anche il sistema di controllo si è nettamente evoluto, con Cage che finalmente è riuscito a smussare gli angoli che rendevano goffa la gestione dei suoi personaggi, acquisendo la naturalezza e reattività di un buon titolo ma senza per questo rinunciare alla sua cifra stilistica della mimesi accennata ai movimenti reali. Ebbene sì, ve lo sto scrivendo: ora il sistema funziona davvero, ed è immediato e coinvolgente. Non era affatto facile, quindi giù il cappello.
Un videogioco politico. Finalmente
Tutti i publisher sono sempre esageratamente cauti nel parlare di videogiochi, ormai ve ne sarete accorti tutti da molti anni, quindi saremo noi a dirvelo forte e chiaro, senza peli sulla lingua o esitazioni: Detroit: Become Human è un videogioco politico, fortissimamente politico, un vero e proprio manifesto ideologico e culturale contro il razzismo e per l’eguaglianza, un grido di allarme attraverso la metafora della fantascienza verso una contemporaneità turbata dalle derive xenofobe, sovraniste e intolleranti, dal Fronte Nazionale in Francia, patria degli autori dell’opera, a figure come Donald Trump in USA o Matteo Salvini in Italia. Un videogioco schierato a sinistra? Certamente sì, se lo chiedete a me. E me ne rallegro. Perché se il Videogioco vuole veramente essere un’opera interattiva con la stessa dignità di cinema, letteratura, musica o fumetto, deve rivendicare il diritto di impossessarsi dei grandi temi sociali e politici. Deve osare. Essere esplicito, provocatorio, trasgressivo. Deve diventare un medium “deviante”, cioè ribelle rispetto alla programmazione imposta dalle grandi multinazionali. Solo così nasce un’industria culturale vera, e Detroit in questo sarà a mio parere ricordato come uno dei veri apripista, perché la battaglia si vince quando si riesce a uscire dal mero recinto dei titoli indie per battersi tra le grandi produzioni, quelle di massa che impiegano mezzi colossali e che toccano direttamente o di riflesso tutti i videogiocatori di tutti i Paesi. Vivo Detroit: Become Human e penso che quegli androidi, in fondo, sono i migranti, detestati ed emarginati. Che sono le masse dei lavoratori sfruttati dal sistema come macchine, imbrigliate in una democrazia che spesso è finta e nella quale il concetto di eguaglianza è ormai solo una parola sbiadita. Penso, infine, che la società dell’apartheid a danno degli androidi vista negli USA 2038 di David Cage sia il più bruciante ed esplosivo racconto di tutte le discriminazioni che, in troppe parti del mondo, vivono popoli vessati e sottomessi, privati dei mezzi di sostentamento e dei diritti civili. Che poi la risposta sia Gandhi o un’applicazione leninista della dottrina di Karl Marx, quello starà a voi stabilirlo attraverso le vostre scelte. E se credete che l’approccio dell’autore sia di salomonica indifferenza di fronte al dio gameplay, perché tanto… è solo un gioco, beh, preparatevi a dover cambiare idea. Non voglio rovinarvi nulla della trama, quindi mi fermo qui, ma forse, molto presto, ci ritroveremo a parlare insieme del concetto di “videogioco manifesto” o di “videogioco a tema”.