L’anno scorso si celebravano i trent’anni dalla nascita della saga di Metal Gear a opera del grande genio creativo di Hideo Kojima, famoso game director giapponese che per anni ha lavorato a quella che ormai è una pietra miliare in ambiente videoludico, prima con Konami e poi di mettendosi in proprio. Per molti videogiocatori, però, il primo Metal Gear è stato quello sulla primissima PlayStation, il leggendario Metal Gear Solid, che ha notevolmente contribuito a rivoluzionare il modo stesso di concepire un videogioco. Quest’anno sono ben 20 anni dall’arrivo del primo MGS e, se vogliamo dirla tutta, si festeggia anche il decimo anniversario dall’arrivo di Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots, che, seppur non rappresenti l’ultimo capitolo dedicato alla saga di Kojima, è sicuramente da considerare come il capitolo conclusivo della linea narrativa creata dal geniale game designer.
La mia esperienza personale con Snake è nata, come per tanti altri, con la prima PlayStation. Nel 1998 internet era agli albori e non esistevano molti siti su cui informarsi circa le proprie passioni videoludiche; all’epoca le riviste cartacee erano ancora molto diffuse e io ero venuto a conoscenza di questo Metal Gear Solid leggendo proprio delle riviste specializzate, ma a dire la verità quanto lessi non mi entusiasmò e non presi molto in considerazione il gioco fino a due mesi prima dell’uscita ufficiale, quando misi le mani sulla demo, allegata proprio a uno dei periodici che ero solito comprare. La provai poco convinto, ma inutile dire che fu amore a prima vista. La demo comprendeva solamente la sequenza iniziale del titolo, ma tanto mi bastò per farmi desiderare come non mai un gioco. Furono due mesi di estenuante attesa, ma finalmente, nel periodo di Pasqua del 1998, complice anche un’attenta e oculata strategia per farmelo regalare dai miei nonni (leggasi anche come “gli ho rotto le scatole in maniera indescrivibile”) potei finalmente tenere tra le mani il sacro disco. All’epoca andavo in prima superiore, se non ricordo male, e passai tutte le vacanze di Pasqua a giocare, andando svogliatamente alla celebre scampagnata di Pasquetta perché avrei preferito non allontanarmi dalla console. Lo finii due volte di seguito, così da poter vedere entrambi i finali. Rimasi folgorato da quel gioco: fino a quel momento non avevo mai giocato a niente di simile nella mia, ai tempi, breve vita da videogiocatore e inutile dire che l’opera di Kojima entrò di diritto nel mio Olimpo di titoli preferiti di tutti i tempi. Dopo vent’anni è ancora lì al suo posto, senza essersi mosso di una virgola.
L’epopea di Solid Snake ha rivoluzionato la filosofia legata alla creazione di un certo tipo di videogiochi: l’impronta cinematografica introdotta da Kojima contribuì a dare sempre più importanza alla narrazione all’interno del medium videoludico e il suo gioco divenne il modello cui ispirarsi per molte altre produzioni che contribuirono a loro volta, negli anni successivi, all’evoluzione del videogioco. Il peso di MGS però non è dato solo dalla sua fantastica storia, ma anche dal suo stile unico nel gameplay.
L’attenzione per i dettagli di Kojima è tale che dire che nel suo lavoro è maniacale non rende l’idea. Nonostante i vari titoli della saga siano guidati da eventi perlopiù lineari, al giocatore veniva data la possibilità di usare le regole del sistema ludico nel modo che preferiva, potendo sfruttare anche alcuni elementi considerati come “easter egg” ma che non erano quasi mai fini a loro stessi. Nel primo Metal Gear Solid, restando troppo sotto la pioggia, ci si poteva prendere il raffreddore e starnutendo si rischiava di attirare le guardie, oppure, in Metal Gear Solid 3: Snake Eater, si poteva uccidere The End sparandogli con un fucile da cecchino in una sequenza molto prima della famosa Boss Battle. Se lo si fosse ucciso in quel modo la sequenza con lui sarebbe stata poi saltata. Nel recente quinto capitolo, una cosa apparentemente sciocca come far defecare il proprio cavallo sulla strada poteva diventare un’ottima trappola per i veicoli dei soldati nemici. Tutte sottigliezze incredibili anche solo da immaginare, che hanno trasformato la saga in una leggenda e hanno consacrato il nome di Kojima come uno dei più grande creatori di videogiochi di ogni epoca. Ciascun capitolo ha portato con sé elementi unici da ricordare ed è giusto approfondirli uno per uno ricordando alcune delle parti che più mi hanno colpito e che ancora ricordo nonostante gli anni trascorsi.
Metal Gear Solid – la genesi della saga
Ho già parlato della mia iniziazione alla saga con questo capitolo. Il gioco ha ridefinito il concetto di stealth game e anche un po’ di action in terza persona. L’I.A. delle guardie, in grado di seguire le impronte sulla neve o di capire se fossimo nascosti all’interno di uno scatolone bagnato mentre ci trovavamo al chiuso, era qualcosa di fuori di testa per i tempi, con un’attenzione incredibile per ogni dettaglio. Gli elementi innovativi erano davvero tantissimi, senza contare le chicche geniali come il codice del codec di Meryl scritto sulla custodia del gioco o la possibilità di farsi amici i lupi facendosi fare la pipì addosso mentre si è all’interno di uno scatolone. So che è scontato, ma l’impatto del combattimento con Psycho Mantis era qualcosa di talmente incredibile che non è ancora stato creato qualcosa dal design così fuori dagli schemi da poterlo eguagliare dopo oltre vent’anni. La storia della lettura delle azioni del controller da parte di Psycho Mantis, fino a quando non veniva spostato sulla seconda porta, è conoscenza comune, ma oltre a quello nascondeva molte altre chicche. I possessori del DualShock, controller arrivato appena un anno prima sul mercato, potevano sentirlo vibrare grazie ai “poteri” di Psycho Mantis; questi era inoltre in grado di capire i vostri gusti videoludici leggendo i salvataggi all’interno della memory card e a un certo punto faceva saltare l’immagine dello schermo tanto che non pochi, fra cui me compreso, hanno pensato a un guasto improvviso perdendo 10 anni di vita. Kojima con questo scontro sfonda la quarta parete in modo originale e unico e questa peculiarità sarà ripresa anche nei titoli successivi.
Infine, non si possono non citare gli splendidi personaggi introdotti nel primo capitolo: Otakon, figura che si rivelerà sempre più importante nella serie, oltre che un essenziale sostegno morale per Snake, grazie alla sua spiccata umanità; Meryl, ragazza forte e coraggiosa, interesse amoroso di Snake nel primo capitolo, che ci ha fatto passare le pene dell’inferno durante la scena della tortura di Snake, in cui abbiamo resistito solo per salvarla; Il Colonnello Roy Campbell, sempre pronto a consigliarci la giusta azione in ogni momento tramite il simbolico Codec.
Sicuramente, però, addirittura più degli alleati, sono stati gli antagonisti a rendere ancora più speciale il primo MGS. Nel loro design e nelle epiche boss battle in cui li si affrontava, si poteva cogliere l’influenza di anime e manga giapponesi, basti pensare ai vari scontri: la gara di velocità con Revolver Ocelot, l’epicità del combattimento con il ninja Gray Fox o il commovente scontro fra cecchini con Sniper Wolf, fino all’epica boss battle finale contro Liquid Snake e il Metal Gear Rex. Ogni boss battle del titolo era qualcosa di unico e ancora oggi ci vengono i brividi per l’emozione al solo ricordo di ognuna di loro.
Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty – un nuovo protagonista
Molti amanti del primo episodio rimasero piuttosto delusi dal fatto che Solid Snake fosse stato sostituito da un nuovo protagonista. In realtà l’intuizione di Kojima si rivelò ancora una volta geniale, poiché, come lo stesso direttore del progetto spiegò all’epoca, la sua intenzione era quella di mostrare al giocatore Snake da un altro punto di vista. Fin quando si giocava nei suoi panni eravamo noi a gestirlo, e così facendo ci immedesimavamo in parte con lui, non capendo quanto le sue gesta fossero incredibili.
Vederlo dall’esterno, tramite gli occhi di Raiden, ci ha fatto amare ancor di più il personaggio, facendoci capire ancora meglio il suo spessore. Il secondo capitolo della saga riprendeva e ampliava molti punti visti con il primo, ovviamente con una migliore qualità grafica e la possibilità di attivare una modalità di visione in prima persona per osservare l’ambiente. L’I.A. dei nemici venne migliorata ancora di più, rendendo, in molti casi, un allarme scattato letale per il giocatore. Raiden utilizza anche la spada, con un curioso sistema di controllo dato dal movimento della levetta destra del joypad, prototipo di quel sistema di combattimento con la spada poi ampliato nello spin-off Metal Gear Rising Revengeance.
La storia tocca temi sempre più importanti e filosofici, tra cui alcuni concetti che sono oggi più attuali che mai, come l’avvento dell’era digitale e il controllo dell’informazione per manipolare le masse. Raiden è stato manipolato tutta la vita e nel suo percorso all’interno del gioco riesce ad affermare il suo sé interiore (grazie anche alla guida di Snake) contro il sistema che lo ha sempre sfruttato, sistema incarnato da Solidus Snake, terzo fratello della famiglia Snake e Boss finale del gioco. La sequenza del titolo che più mi è rimasta impressa nella mente è quando a un certo punto i messaggi del colonnello diventano sempre più criptici e iniziano a rompere la quarta parete in modo sempre più diretto, creando un certo senso di inquietudine nel giocatore. I messaggi veicolati tramite i vari personaggi del codec, poi sostituiti dall’I.A. dei Patriots, ci fanno dubitare di quanto è successo fino a quel punto nella storia, mandandoci in confusione e mettendoci a disagio. Si arriva a disquisire della società umana, dei nuovi media che ai tempi si stavano affacciando al mondo, ma che Kojima aveva già inquadrato, elaborando dei ragionamenti molto avanti per i tempi: l’informazione digitale può essere usata per creare una nuova realtà? L’umanità può essere ridotta a semplici dati e gestita in questo modo? Questo lo scopo dei Patriots, ma Snake e Raiden (e Kojima stesso) vogliono dimostrare che possiamo essere padroni delle nostre decisioni, grazie alla consapevolezza che Raiden ottiene delle sue azioni passate e delle scelte future che farà senza influenze esterne. Una sequenza ancora oggi incredibile, dove il giocatore è tenuto a riflettere in modo molto profondo su sé stesso e sulla società che lo circonda e ancora una volta Kojima riesce a portare nei suoi titoli qualcosa totalmente fuori da ogni schema.
Metal Gear Solid 3: Snake Eater – l’importanza del passato
L’annuncio che il terzo episodio della serie fosse un prequel fu spiazzante, dato che gli eventi del secondo lasciavano molte questioni in sospeso, ma con il senno di poi ci rendiamo conto che Metal Gear Solid 3: Snake Eater era il capitolo più utile a comprendere l’intricata trama della saga. In questo episodio si fa un salto indietro nel tempo, fino al 1964, nella missione in cui Naked Snake ha ereditato il titolo di Big Boss.
Il gameplay viene rivoluzionato nuovamente grazie a un sistema stealth più approfondito, dove conta la percentuale di mimetizzazione con l’ambiente e dove la tecnologia è molto più limitata, visto il periodo storico. La nuova interessante meccanica introdotta è una sorta di accenno ai survival, data la possibilità di cacciare selvaggina e curarsi le ferite da soli molto in stile Rambo. Come sempre la parte narrativa raggiunge livelli altissimi, grazie a una storia matura che manifesta sempre più uno dei temi ricorrenti nelle produzioni di Kojima, ossia la riflessione sulla guerra e sui motivi che le causano, con particolare enfasi sul pericolo delle armi nucleari. Anche in questo capitolo abbiamo degli antagonisti di tutto rispetto, rappresentati dal colonnello russo Volgin e i suoi pugni elettrici, ma soprattutto dalle unità Cobra di The Boss, la maestra di colui che diventerà Big Boss. La sfida fra cecchini con The End riesce a superare anche la già stupenda battaglia con Sniper Wolf nel primo MGS, senza contare la particolarità della Boss Battle con The Sorrow, la cui difficoltà varia a seconda dei nemici uccisi fino a quel momento e che rappresenta una sorta di cammino nell’aldilà con riferimenti alla religione buddista. La battaglia finale con The Boss è poi uno dei momenti più alti di tutta la produzione di Kojima, un combattimento che strazia il cuore del giocatore con la sua triste conclusione, che non può che commuovere, facendoci piangere come delle fontane. Questo terzo capitolo ai tempi della sua uscita sembrava sì avere a che fare con il resto della storia, ma non sembrava fondamentale per comprendere quanto stava succedendo nel presente di Solid Snake e Raiden. L’uscita del quarto episodio fece comprendere a tutti gli scettici l’importanza di Snake Eater.
https://www.youtube.com/watch?v=zi2OClpQbHE
Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots – la fine dei giochi
Il quarto episodio è l’ultimo capitolo in ordine cronologico. Nonostante l’esistenza di un quinto capitolo (e spin off canonici vari), questo torna a sondare il passato di Big Boss, mentre la storia principale di Solid Snake e di tutti gli altri comprimari si può definire conclusa con Guns of the Patriots. MGS 4 è stato spesso criticato per la lunghezza delle sequenze narrative, elemento che limitava molto le parti giocate, un modo di approcciarsi al gioco secondo me non corretto, dato che MGS 4 rappresenta la fusione ultima fra mezzi cinematografici e parti giocate che Kojima ha saputo rendere alla perfezione grazie alla nuova tecnologia fornita dalla PS3. Le parti narrative alla fin fine sono uno dei motivi principali per cui un fan gioca ai titoli dell’eccentrico game designer, dunque perché lamentarsi che uno degli aspetti di maggior pregio della saga duri troppo. La cosa che più mi ha stupito di Guns of the Patriots è come tutti i pezzi di un complessissimo puzzle si riescano a incastrare perfettamente nei buchi lasciati nei precedenti episodi (ai tempi c’era anche un’enciclopedia che approfondiva ogni vicenda della storia del gioco, utilissima per ricordarsi ogni avvenimento).
Solitamente in storie così complicate e di lunga durata c’è sempre il rischio che alla fine qualcosa sia fuori posto, in MGS invece no. Tutti i punti più importanti della trama hanno la giusta conclusione, con diversi plot twist che all’epoca mi avevano lasciato davvero a bocca aperta. Persino aspetti meno importanti, come ad esempio la fonte dei poteri “vampirici” di Vamp, vengono spiegati. Guns of the Patriots celebra anche la saga, con diversi richiami alle parti più gloriose dei primi capitoli, tanto che in una sequenza giochiamo addirittura l’introduzione del primissimo MGS. In alcuni punti poi Kojima ha deciso di regalare ai fan dei momenti di puro fan service, come quando affronteremo il Metal Gear Ray utilizzando il Metal Gear Rex. Infine, la battaglia conclusiva fra Solid Snake e Liquid, ancora nei panni di Ocelot, ripercorre in maniera evocativa tutta la loro storia, portando a degna conclusione la rivalità tra fratelli. I temi affrontati da Kojima si focalizzano sempre di più sugli orrori della guerra e sullo sviluppo tecnologico incontrollato, che nel titolo si manifesta tramite le nanomacchine inserite all’interno dei soldati e i traumi che diversi personaggi si portano dietro dopo anni di guerre continue.
I boss principali sono quattro fanciulle chiamate le Beauty and the Beast, ragazze controllate da Liquid e instabili mentalmente per via dei traumi subiti in guerra. Ognuna di esse ha una tuta meccanica che somiglia a una bestia specifica e ognuna è un omaggio ai boss apparsi nei capitoli precedenti. Molte delle battaglie con le B&B hanno parecchio in comune con le boss fight del passato; ad esempio, la battaglia con Crying Wolf si svolge esattamente nello stesso luogo dove nel primo MGS si affrontava Sniper Wolf e anche stavolta si tratta di un combattimento fra cecchini. Screaming Mantis, invece, per quanto non possa raggiungere i livelli della battaglia con Psycho Mantis è un ottimo momento di fan service legato proprio al personaggio del primo gioco, con anche la chicca che se si prova a impostare il controller sulla porta numero 2 si riceverà una chiamata da Otakon che ci avvertirà che questo metodo non funziona più.
Nonostante la libertà di uccidere oppure no i vari nemici del gioco sia sempre lasciata al giocatore, il tema della non violenza si fa sempre più presente nelle produzioni di Kojima. Sconfiggere infatti con mezzi non letali le quattro ragazze premierà il giocatore con delle scene diverse e meno cupe sulla fine fatta dalle fanciulle, e gli permetterà inoltre di ricevere fisicamente i modellini delle ragazze da vedere nella gallery.
Metal Gear Solid 4: Guns of the Patriots è stata la degna conclusione di una saga epica, che a 10 anni di distanza ricordiamo ancora come uno dei finali più completi del mondo videoludico.
Metal Gear Solid 5: The Phantom Pain – un capolavoro incompiuto
Il quinto capitolo è giunto a noi tre anni fa come titolo cross-gen a cavallo fra era PS3 e Xbox 360 e PS4 e Xbox One. Il titolo è stato preceduto da una sorta di prologo chiamato Ground Zeroes. Il titolo, ambientato nel 1984, ci mette nuovamente nei panni di Big Boss, dopo l’incidente avvenuto nel capitolo prologo. Questo quinto capitolo è il primo a offrire un mondo interamente open world, diviso in due aree, Afghanistan e Africa, dando maggiore enfasi alle nuove meccaniche stealth e di combattimento rispetto ai capitoli precedenti. È anche possibile costruire e far crescere una propria base militare, che si potrà utilizzare in alcune componenti online. Anche la linearità della storia è cambiata, per una visione più frammentata della componente narrativa. In The Phantom Pain sono ancora centrali i temi che Kojima ha affrontato in tutti questi anni, ossia la guerra e tutte le sue conseguenze, come il dolore fantasma di un arto perso, la rabbia psicologica che ne consegue, la vendetta e il dramma dei bambini soldato. Tutto questa violenza si riflette anche nel personaggio di Venom Snake, che appare sempre più stanco e sopraffatto dalle nefandezze della guerra. Davvero interessante e coraggiosa la scelta di Kojima di inserire un particolare filmato sbloccabile solamente quando tutti i giocatori che hanno costruito una base avranno smantellato le proprie testate nucleari. Una scelta del game designer che ben si adatta alla posizione contro la violenza della guerra che ha sempre espresso, presentando un messaggio di pace in modo originale per il medium videoludico.
Purtroppo il quinto capitolo ha avuto diversi problemi durante lo sviluppo, a causa della scissione tra Konami e Kojima, lasciando, a un certo punto, una sorta di vuoto negli eventi del titolo; eventi che purtroppo non vedremo mai ripresi dall’autore, data la situazione attuale.