L’essere umano è curioso ed indagatore per natura: gli viene spontaneo pensare a cosa riserverà per lui il futuro, come si muoveranno gli equilibri, cosa succederà. A volte ripone piena fiducia nella scienza, nel buonsenso umano e nella fratellanza tra i popoli, prefigurandosi un mondo pacifico e prosperoso; ma nella maggior parte dei casi, anche a causa di un innato pessimismo di fondo e delle amare vicende del presente, ci si pone davanti agli occhi uno scenario apocalittico, fatto di controllo, repressione, sudditanza e violenza.
Perché questa premessa? Beh, gli amanti del romanzo distopico sapranno già dove voglio andare a parare: We Happy Few, opera action RPG con elementi survival e di crafting sfornata dallo studio indie canadese Compulsion Games, trasuda George Orwell e Aldous Huxley da ogni bit, e fotografa un pezzo di Gran Bretagna sotto una lente oscura e pessimista: l’aria che si respira, nonostante i colori vivaci ed i sorrisi smaglianti, è tetra ed oppressiva, e man mano che andrete avanti nella storia il senso di angoscia si trasformerà in un peso tangibile. E narrazione e setting non potranno fare a meno che rimandarvi a dei recenti accadimenti politici che hanno scosso la Gran Bretagna, per i quali la stampa internazionale ha emanato pronostici degni dell’Apocalisse di San Giovanni. Ma bando alle ciance, andiamo con ordine.
Bethesda, sei tu?
Prima di avventurarci nell’immensa giungla di references e chicche proposte dalla trama, trattiamo le cose facili. Sin dai primi minuti del gioco noterete che, a livello tecnico, qualcosa sembra non andare; già la cutscene d’avvio mette in mostra l’instabilità del framerate che il gioco si porta dietro fino al suo compimento, per non parlare dell’immenso numero di glitch grafici che si sono potuti riscontrare. Persone che trapassano muri e rimangono immerse fino al torace nel terreno -camminando come se nulla fosse- sono all’ordine del giorno (e pure il minimo sindacale, via), ma è nella quantità di bug che We Happy Few dà il peggio di sé, battendosela tranquillamente con i migliori giochi di ruolo marchiati Bethesda, in particolare The Elder Scrolls IV: Oblivion. A parte i classici NPC che in fase di combattimento si incagliano negli edifici (bug che si può tranquillamente sfruttare a proprio favore), l’intelligenza artificiale del gioco, nonostante sia ben congegnata sulla carta, sembra funzionare in maniera totalmente arbitraria, e vi scaglierà contro gente imbestialita anche quando in teoria non dovrebbe. I sottotitoli, attivabili nel menu delle opzioni, a volte rimandano a dialoghi fra personaggi in zone lontane dal giocatore, in altri frangenti passeranno dall’italiano all’inglese e a volte non compariranno nemmeno, e vi assicuro che, con le complessità della pronuncia purely-British proposta, vi serviranno come l’aria, anche se siete abituati a guardare le serie tv su Netflix in lingua originale e senza l’aiuto da casa. Infine, cosa più grave, il gioco è affetto da crash e freeze che, anche se non frequenti, vi faranno salire parecchio la bile. Insomma, se siete persone che ricercano la perfezione assoluta a livello tecnico, We Happy Few non è quello che fa per voi. A meno che non siate di bocca buona o fan accaniti di Bethesda, in quel caso vi si stamperà sempre un sorriso sulle labbra. In ogni caso, nulla che non possa essere risolto con delle buone patch correttive, ma è comunque insensato mettere in commercio un gioco che, a tratti, sembra incompleto.
Distopia all’inglese in salsa burtoniana
Se avete scelto di proseguire nella lettura del mio poema, decidendo di dare una chance a questa giovane opera canadese, beh buon per voi!
La premessa del gioco è riassunta in un semplice interrogativo: e se durante la Seconda Guerra Mondiale i nazisti fossero davvero riusciti ad invadere la Gran Bretagna? Ci troviamo infatti nel 1963, 33 anni dopo l’ipotetica invasione tedesca, a Wellington Wells, una nazione costituita da un arcipelago di isole all’interno della stessa Gran Bretagna, in cui è stata legalizzata e resa gratuita la Gioia, una particolare droga che induce uno stato di euforia e felicità innaturali e causa amnesia se assunta assiduamente. L’uso e consumo costante di Gioia è l’unica preoccupazione dei wellingtoniani, tanto da renderla un lasciapassare obbligatorio per essere ammessi nel villaggio di Hamlyn come dei veri “cittadini perbene”. E se non assumi la Gioia? Semplice: vieni etichettato come un musone e scaraventato nel Garden District al di là delle porte del villaggio in mezzo agli Straccioni, persone esiliate che conducono una vita di stenti. Il giocatore prenderà le parti rispettivamente di Arthur, un revisionista storico (Hey, Winston Smith from “1984”) alla ricerca di suo fratello, Sally, una donna popolare nel villaggio e apprezzata per le sue doti da chimica, e Ollie, un veterano della Seconda Guerra Mondiale. Ognuno dei personaggi deciderà arbitrariamente di sospendere la Gioia per affrontare il proprio passato, mentre cercherà di scappare dalla micro-nazione alla volta della Gran Bretagna.
Nonostante la trama di We Happy Few sappia di “già sentito” per via della sua chiara ispirazione dai due capisaldi del genere distopico, “1984” di George Orwell e “Il mondo nuovo” di Aldous Huxley, possiamo sicuramente apprezzare lo sforzo a livello artistico e musicale che il team di sviluppo ha impiegato per caratterizzare al meglio il suo gioco. Nonostante all’apparenza Hamlyn cerchi di evocare l’idea di un posto dove felicità e gioia regnano sovrani, l’atmosfera è resa pesante ed oppressiva dai numerosi poliziotti in giro per la città e dai personaggi vestiti tutti uguali che ti chiedono continuamente se “hai preso la tua Gioia”; il tutto reso con un design che rimanda alla memoria la cifra stilistica di Tim Burton: gotico, colorato ma che nasconde una punta di tetro ed angosciante. Completa il quadro una colonna sonora perfettamente in linea con la moda degli anni ‘60, con canzoni dei Beatles (sì, giuro, ci sono i Beatles) e tracce strumentali degne del miglior film noir. Per non parlare dello storytelling che, seppure intriso fino all’osso di British humor e di stranezze proprie del popolo inglese (mamma mia, ragazzi, i traumi…), ad ogni ricordo recuperato contribuirà a farvi contorcere di più lo stomaco, fino a farvi piangere nei finali. Infine, le meccaniche di gioco aumenteranno il senso di ansia e urgenza che già caratterizza We Happy Few dal suo inizio: bisognerà continuamente andare a caccia di materiali utili alle nostre missioni, di cibo buono e acqua pura per soddisfare i nostri bisogni, ed eventualmente grosse scorte di medicinali per tenerci bene in salute, pena un crollo verticale delle proprie statistiche; bisognerà tenere sotto controllo l’umore dei cittadini attraverso specifici accorgimenti e stare attenti ai tornelli rileva-musoni disposti ad ogni angolo di Hamlyn, pena una folla inferocita pronta a darvele di santa ragione in ogni momento; ed inoltre attenzione alle overdose di Gioia, pena la perdita dei ricordi ed un sicuro bad ending. Insomma, nonostante la marcata somiglianza ai due mostri sacri del romanzo distopico, i ragazzi di Compulsion Games hanno saputo distinguere la loro opera dalla giungla di videogiochi a tema, rimanendo al contempo fedeli ai cliché tipici di queste narrazioni: l’avventura è gradevole dal punto di vista estetico e musicale, ma l’impressione di essere controllato pervaderà il giocatore anche nelle aree al di fuori della portata di cittadini, poliziotti e telecamere; vi sentirete fuori posto anche per esservi semplicemente alzati dal letto, ed una pressione costante sarà padrona dei vostri stomaci. È a causa di questa sensazione che il gioco spingerà il giocatore ad affinare le proprie abilità strategiche, fino ad essere addirittura capace di ammazzare un poliziotto in mezzo alla pubblica piazza come se nulla fosse, frugare tra i suoi resti, ed eventualmente ballarci pure sopra.Well done, my good sir! *sorseggia del tè*
Brexit e memoria: il monito di We Happy Few alla Gran Bretagna
Sapete, credo non sia un caso che We Happy Few, un gioco sviluppato da un team canadese, sia ambientato in Gran Bretagna. Il Paese è scosso, a livello politico e sociale, a causa della Brexit, e commentatori ed analisti politici ne fanno un gran parlare ogni giorno: i detrattori della causa europea in Parlamento hanno fatto dietrofront in massa, la Premier Theresa May è sola in mezzo agli squali e il popolo, resosi conto del suo errore, invoca in massa un contro-referendum per tornare nell’Unione Europea, come a voler cancellare il suo errore e far tornare tutto come prima. Tenete in mente queste mie parole mentre giocate, e vi renderete conto che le similitudini tra le vicende narrate nel gioco e la Brexit sono più marcate di quanto crediate. Inoltre, ricordate le previsioni catastrofiche degli analisti subito dopo gli exit poll? Prefiguravano un futuro per la Gran Bretagna degno del miglior romanzo distopico: crollo della sterlina, lotte sociali e difficoltà economiche per famiglie e imprenditori. Non è uno scenario molto lontano da ciò che vedrete prendendo in mano il joystick.
Noi da fuori abbiamo l’impressione che la Gran Bretagna tutta si sia un po’ dimenticata chi è: in un mondo dove, per prevenire disastri come la Seconda Guerra Mondiale, è fondamentale restare uniti e cooperare, la terra della Regina Elisabetta II si tira indietro, vuole lavarsi i panni sporchi in famiglia, salvo poi cambiare idea all’ultimo minuto cercando di rimettere le pezze come meglio può. Ed ecco che entra in scena un monito importante proveniente dal gioco: pensate se voi, inglesi, aveste subìto davvero l’invasione tedesca, con tutti gli annessi e connessi, compresa una bella deportazione di massa. Cosa avreste fatto, avreste alzato la testa e combattuto o vi sareste ritirati fino ad isolarvi, cercando un benessere sintetico di facciata? E i vostri errori, li avreste tenuti come monito o sottoposti a censura selvaggia per affrontare “i posteri con gioia” come recita il motto di Wellington Wells? E a proposito del tema della memoria, è lì che We Happy Few dà il meglio di sé, mostrando come il vissuto di ognuno dei personaggi sia collegato a quello di una comunità intera, piccola o grande che sia, e in un mondo dove la Gioia è l’unica emozione permessa, anche un minimo ricordo fuori dalle righe può sovvertire un’intera nazione.
In conclusione, nonostante i suoi enormi buchi tecnici, We Happy Few mette davvero tanta carne al fuoco. I temi del romanzo distopico, dacché sono stati scritti “1984” e “Il mondo nuovo”, sono sempre gli stessi (isolazionismo, controllo, totalitarismo, repressione), e caratterizzano il genere intero. We Happy Few omaggia in maniera intelligente quei due capisaldi pur sapendosi distinguere dalla massa, offrendo una narrativa peculiare incentrata sul valore della memoria capace di instillare nel giocatore un continuo senso di urgenza, anche tramite il sistema di bisogni ben congegnato. L’ottima caratterizzazione dei personaggi consente di empatizzare in maniera tangibile con loro, e l’atmosfera tetra riesce a generare un senso di angoscia tale da farvi credere di essere voi stessi i protagonisti delle vicende narrate. I vari rimandi alle usanze inglesi (anche quelle, beh, più “discutibili”), le bellissime voci dei doppiatori contraddistinte da un sensuale accento purely-British e la colonna sonora in linea con il tempo del racconto saranno sempre capaci di regalarvi un sorriso; sorriso che farà da anticamera alle lacrime che verserete per colpa degli angoscianti ricordi dei personaggi. Se avete intenzione di giocare We Happy Few, mi raccomando: guardate oltre i grossi problemi tecnici che si porta dietro e lasciatevi immergere. Capirete qualcosa in più di come vanno le cose all’interno di una comunità e di cosa voglia dire l’espressione “il valore della memoria”. Ne uscirete trasformati.