Ci sono alcuni momenti speciali nella vita di un videogiocatore che corrispondono alla scoperta di generi dei quali non conoscevamo nemmeno l’esistenza, convinti magari di aver già sperimentato l’intera estensione creativa dei game designer del momento: benché tali occorrenze di solito trascendano il periodo storico, sono perlopiù influenzati dalla nostra intrinseca volontà di lasciarci meravigliare e, di conseguenza, si legano con maggiore facilità all’infanzia e alla preadolescenza, periodi che per me hanno coinciso con la voglia di guardare, provare e assimilare ogni cosa senza alcun preconcetto. Nella fattispecie, il mio profetico incontro con i JRPG avvenne in un assolato pomeriggio estivo, quando tornai a casa stringendo fra le dita emozionate una confezione un po’ più pesante del normale, frutto di una meritatissima promozione in prima media: quella cartuccia da pochi kilobyte, ma soprattutto la splendida cartina quadrettata pieghevole all’interno della scatola, mi avrebbero spalancato un mondo infinito (e dannatamente spietato, devo ammetterlo) ricolmo di posti da visitare, mostri da abbattere e tesori da conquistare, una casella alla volta. Da unico possessore di Sega Master System in tutto il vicinato, non persi l’occasione per parlare di Miracle Warriors a tutti i miei amici, invitandoli a casa per dare loro un assaggio delle epiche battaglie fra un anonimo cursore che rappresentava un drappello di eroi in perenne posa plastica e svariati gruppi di feroci funghi antropomorfi: nonostante la maggior parte continuasse a preferire una partita a California Games o R-Type, ci fu chi invece rimase colpito da quel bizzarro miscuglio di ambientazioni fantastiche, sprite statici e combattimenti a turni, tanto da cercare qualcosa di simile anche per la propria console fino a trovare, in capo a qualche mese, un titolo analogo che mi volle con orgoglio. Mentre lo guardavo armeggiare col televisore dei suoi genitori, gettai un’occhiata fugace al contenitore di cartone dal quale aveva estratto il game pak: il titolo che campeggiava in copertina era Dragon Warrior. Che delusione! I colori del NES non potevano certo rivaleggiare con la vivace palette cromatica dell’8-bit (tanto, pure se ci fossero riusciti, non l’avrei mai ammesso), e le granitiche miniature degli avventurieri che si stagliavano sui fondali cangianti erano qui rimpiazzati da un solitario mucchietto di pixel impegnato ad affrontare mostruosità più esilaranti che minacciose. Eppure… eppure qualcosa funzionava davvero, in una maniera che non riuscivo proprio a spiegarmi: sarà stata la relativa linearità della missione che, al contrario di Miracle Warriors, non ti costringeva ad affrontare un drago sputa fuoco solo perché avevi messo piede nel riquadro sbagliato della mappa, oppure lo strano fascino di quei nemici, vagamente simili ai personaggi di Arale e Dragon Ball che guardavo su Junior TV, o ancora il tema iniziale che mi ritrovai spesso a fischiettare, e che a tutt’oggi potrebbe benissimo venire nominato come inno nazionale del Giappone. Mi ci volle ancora qualche anno per riuscire a mettere assieme tutti i pezzi e capire quale fosse la reale portata di quella produzione e l’influenza che avrebbe esercitato su tutti i giochi di ruolo per console che gli avrebbero fatto seguito: non a caso, a oltre trent’anni di distanza, il nuovo Dragon Quest XI: Echi di un’era Perduta (il sottotitolo originale è Sugisarishi Toki o Motomete, Alla Ricerca del Tempo Vissuto) lancia un solenne monito già dal titolo che, in un mondo alla perenne ricerca di modi più o meno complessi di reinventare la ruota e, forse, di complicarsi inutilmente la vita, potrebbe alludere alla necessità di fermarsi e volgere lo sguardo al passato ogni tanto perché, a livello concettuale, la medesima ricetta studiata negli anni ’80 da Yuji Horii con il contributo artistico di Akira Toriyama e acustico di Koichi Sugiyama funziona egregiamente ancora oggi.

Non esiste la luce senza tenebre
Il nostro anonimo e silenzioso protagonista, la cui capacità più strabiliante è quella di riuscire a esprimersi a gesti come tradizione della saga, è intento ad affrontare il consueto rituale di passaggio all’età adulta del suo villaggio con una coetanea, che consiste nell’inerpicarsi sulla cima di un massiccio roccioso: tuttavia, qualcosa non quadra e il luogo brulica di creature ostili, che risvegliano dentro di noi un potere sopito con il quale riusciamo a sopraffarli. L’eroe non è infatti originario del piccolo borgo di Roccapietra, ma proviene da un regno distrutto tempo addietro dai demoni e lo strano simbolo che porta sul dorso della mano sinistra lo legherebbe alla discendenza dei Lucenti, eroi leggendari che da sempre si sono opposti all’avanzata del Signore delle Ombre e degli abominevoli eserciti ai suoi ordini. Il capo villaggio lo indirizza così verso Hellador, capitale imperiale dove re Carnelio saprà fornirgli maggiori delucidazioni e impiegare al meglio i suoi servigi in qualità di rinnovato campione del bene, ma anche in questo caso non tutto va come dovrebbe e le circostanze ci spingono a una rocambolesca fuga con l’aiuto di un improbabile alleato, il primo di una lunga serie, assieme al quale ci imbarcheremo in un lungo e tortuoso viaggio alla ricerca della verità sui nostri natali e sulla forza che ci lega spiritualmente a Yggdrasil, il fluttuante Albero del Mondo dal quale si dice sia nata ogni forma vivente e al quale le stesse fanno ritorno dopo aver esaurito il loro tempo mortale. La storia si dipana in un crescendo di colpi di scena e capovolgimenti di fronte, nulla di inconsueto per quanti sono già familiari con la classica struttura dei precedenti episodi, ma i toni drammatici, il ritmo serrato e gli espedienti narrativi che fanno spesso appello a paradossi temporali ben concepiti ricordano molto da vicino quanto già visto in Dragon Quest V e in un altro titolo al quale Horii fornì il proprio inestimabile apporto, ossia Chrono Trigger. Dragon Quest XI resta quindi un Dragon Quest in tutto e per tutto, ma gli estimatori di quello che viene considerato a ragion veduta il magnum opus di Squaresoft per Super Nintendo si ritroveranno a calcare un territorio piacevolmente familiare. Il mondo che ci ritroviamo a esplorare, Erdrea, è un vasto insieme di terre che variano in ampiezza, estensione e connotati geografici, ciascuna ben distinta dalle altre: non proprio un open world come qualcuno aveva ipotizzato, congettura peraltro smentita dallo stesso staff durante il periodo di sviluppo, ma una serie di livelli interconnessi e dotati ciascuno di un ecosistema che aiuta ben presto a comprendere la tipologia di mostri con i quali avremo a che fare.
A tal proposito, fra esemplari unici e variazioni differenti degli stessi, il bestiario conta centinaia di voci che metteranno a dura prova la nostra attitudine al combattimento, e gli scontri casuali hanno ceduto il passo a una rappresentazione ben visibile degli avversari che si aggirano e interagiscono con lo scenario, magari mimetizzandosi per coglierci alla sprovvista: analogamente, possiamo procedere a nostra volta a sferrare un attacco preventivo contro gli antagonisti prescelti, privandoli di un piccolo quantitativo di energia vitale prima che inizi lo scontro, e gli stessi sono in grado di fuggire se ci scorgono e la loro potenza relativa è inferiore alla nostra oppure di inseguirci nel caso rappresentino invece una sfida adeguata. Inoltre, il minuzioso level design ha consentito l’introduzione di creature che possono essere cavalcate una volta sconfitte, le cui capacità servono per raggiungere zone altrimenti inaccessibili che nascondono segreti e tesori, ulteriore incentivo per gli osservatori più zelanti. I combattimenti possiedono la classica struttura a turni nella quale i contendenti agiscono a seconda della propria agilità: è possibile sia impartire i comandi in maniera individuale a ciascun componente del gruppo che affidarsi a una delle varie strategie automatiche preimpostate. Una volta tanto, posso testimoniare la bontà dell’intelligenza artificiale che non si prodiga (quasi) mai nell’utilizzo insensato di poteri e oggetti speciali, come sferrare un attacco di gruppo contro un solo nemico, ma opera sempre una certa perizia delle situazioni e adotta di conseguenza un comportamento ragionevole. Lo scambio reciproco di colpi può anche far entrare i personaggi in uno stato cosiddetto “pimpante”, simile alla tensione di Dragon Quest VIII, che conferisce loro diversi bonus alle caratteristiche, ai colpi critici e alle potenzialità offensive e difensive in generale: tale condizione viene mantenuta per qualche turno, persino fra uno scontro e l’altro se non si esaurisce, ma abbiamo la facoltà di estinguerla prima del tempo per scagliare un poderoso assalto in combinazione con un altro membro del gruppo nel medesimo stato che, in molte occasioni, è in grado di capovolgere letteralmente le sorti di una battaglia. Gli attacchi di coppia e molte altre competenze legate all’impiego di armi e incantesimi vengono acquisiti sia con l’esperienza che con l’investimento di un certo quantitativo di punti abilità, assegnati a ogni passaggio di livello, su un tabellone che ricorda per certi versi la sferografia di Final Fantasy X, le cui caselle sbloccano diversi aspetti delle classi alle quali appartengono i personaggi e ci consentono di definire i loro punti di forza a seconda del nostro stile di gioco. L’apprendimento è anche connesso a determinati eventi nel corso della storia, che possono alterare le conoscenze del protagonista o dei suoi compagni, ma tutte le crisi una volta risolte portano a una crescita in termini cognitivi, personali e “numerici”: nulla dunque di quanto capitalizzato fino a quel momento andrà mai perduto per sempre, e possiamo star certi che prima o poi verrà recuperato con i dovuti interessi.

Il Lucente è la fonte di ogni male!
Dragon Quest XI fornisce anche l’opportunità di fabbricare il nostro equipaggiamento attraverso un minigioco disponibile durante il bivacco, al di fuori delle città o dei villaggi che invece dispongono di comode locande: grazie ai prodigi di una bizzarra forgia portatile, infatti, siamo in grado di utilizzare le ricette apprese da libri, comprimari e missioni secondarie con gli ingredienti raccolti nel corso dei nostri pellegrinaggi per modellare un gran numero di oggetti, il cui vantaggio rispetto alle controparti acquistabili presso i negozi e i venditori ambulanti è quello di possedere diversi benefici aggiuntivi a seconda della qualità del lavoro svolto. Qualora il risultato non sia di nostro gradimento, c’è sempre l’opportunità di intervenire su un manufatto poco riuscito e ripetere da capo il processo. È un peccato che soltanto una piccola parte di abiti e corazze alteri effettivamente l’aspetto di chi li indossa, mentre la diversa fattura di armi e scudi è sempre visibile tanto in combattimento quanto durante le fasi di esplorazione o le sequenze non interattive. Parlando di personaggi non giocanti, è necessario sottolineare quanto la loro caratterizzazione partecipi nel rendere Erdrea un universo attivo, dinamico e brulicante di vita, quantunque alcuni modelli poligonali vengano ripetuti un po’ troppe volte: dai dialoghi essenziali per il prosieguo della trama alle chiacchiere di passaggio lungo le strade, ogni singola conversazione è un tassello che accresce l’immersione complessiva, stimolandoci a dialogare con chiunque capiti a tiro non soltanto per puro e semplice tornaconto ma anche solo per sentirci parte di questo strabiliante microcosmo di umanità digitale. La versione su PlayStation 4 di Dragon Quest XI è mossa dall’Unreal Engine 4, che gli conferisce un aspetto non troppo dissimile dai due Dragon Quest Heroes già visti sulla medesima piattaforma e gli permette di preservare un ottimo livello di dettaglio in qualsiasi circostanza, con occasionali ma impercettibili perdite di framerate nelle battaglie più concitate. Il gioco traduce la maggiore potenza di calcolo della PlayStation 4 Pro con una qualità visiva decisamente più nitida, un aliasing ridotto e una risoluzione più elevata che raggiunge i 4K grazie al checkerboarding, per quanto i frame al secondo restino fissi a 30 su entrambe le macchine.
Il porting internazionale si avvale di qualche accorgimento extra rispetto all’originale giapponese, come la possibilità di spostarsi con maggiore velocità anche a piedi o di controllare direttamente i personaggi in battaglia, opzione che non ha alcun effetto sulla probabilità di schivare gli attacchi dei nemici ma che potrebbe essere un valido compromesso per quanti non sopportano di restarsene con le mani in mano fra un turno e l’altro. L’aggiunta più significativa è senza dubbio il doppiaggio in lingua inglese, i cui interpreti si esprimono con un marcato accento britannico dalle espressioni un po’ desuete, consuetudine alla quale ormai anche i detrattori hanno fatto il callo, e dalla cadenza appropriata alla ricostruzione scenica dei vari territori, come l’inflessione spiccatamente mediorientale degli abitanti di Galoppoli, una città incastonata nel bel mezzo del deserto. L’adattamento italiano è di eccellente qualità, e gli sforzi profusi per adeguare i costrutti linguistici più complessi in una forma comprensibile che non fosse una banale traduzione pedissequa sono tangibili: non sono certo che la compagnia che se ne è occupata sia la stessa che ha curato i due Ni no Kuni, ma l’impressione è che gli stili siano molto simili. Per chiudere, gli effetti sonori e buona parte degli arrangiamenti musicali riprendono le straordinarie composizioni di Sugiyama, ma i brani inediti non riescono a esprimere la medesima incisività e finiscono per perdersi fra le note familiari dei passaggi più celebri.

Dragon Quest XI è, come dicevo in apertura, la dimostrazione pratica che non serve creare macedonie indigeste di narrativa e gameplay per confezionare un prodotto che, nel 2018, sia capace di attirare l’attenzione tanto degli appassionati storici di una serie quanto dei neofiti che vogliono avvicinarsi per la prima volta a un genere con il quale non hanno familiarità. L’ultimo capitolo della saga firmata dalla sacra triade Horii, Toriyama e Sugiyama è un prodotto assolutamente moderno che resta tuttavia fedele alle proprie radici, e in tal modo riesce a far perdere i giocatori nel proprio mondo con la semplicità delle sue meccaniche, collaudate e raffinate fino in fondo, e la potenza di un racconto lineare ma efficace e coinvolgente, pieno di avventura, divertimento, eccitazione e drammaticità dosati al punto giusto. La lezione impartita da Square Enix è onesta e significativa: non serve sforzarsi a tutti i costi per andare incontro ai gusti del pubblico se poi si perdono di vista i concetti fondamentali che hanno reso grandi le glorie del passato; al contrario, spesso ciò che serve davvero è uno sguardo rivolto al futuro che non stravolga invano quanto costruito fino a oggi, ma sappia preservare e rinnovare con criterio la memoria di ciò che è stato per le generazioni attuali.