Nel corso dell’Electronic Entertainment Expo di quest’anno, la presentazione di Shadow of the Tomb Raider è passata piuttosto in sordina e lontano dai riflettori che hanno colpito le bombe più grandi in uscita a fine anno o inizio 2019, in modo anche un po’ ingeneroso nei confronti del lavoro di Crystal Dynamics, che dal 2013 ha provato a riportare in auge una vera e propria icona della storia dei videogiochi come Lara Croft. Il terzo capitolo della nuova trilogia, che giunge a tre anni di distanza dal precedente e lo fa sotto l’ala di Eidos Montreal (conosciuta per gli ultimi Deus Ex), è un po’ la summa di questo percorso, incastrandosi perfettamente in una struttura ludica ormai consolidata e conosciuta ormai da tutti, figlia legittima dell’action-adventure moderno. Questo, però, non significa che non sia riuscito a sorprendermi, anzi: da profondo conoscitore dei vecchi e dei nuovi Tomb Raider, ho riconosciuto in diversi elementi, cardini della nuova trilogia ormai da anni, un acume e un piglio inaspettati, che nel primo capitolo e nel pur ottimo Rise of the Tomb Raider avevano qualche tentennamento. E se nel caso dell’ultima avventura della bella avventuriera inglese non mancavano che pochi passi per poter raggiungere l’eccellenza, qui… beh, fate i vostri conti.
I primi passi in Shadow of the Tomb Raider ci riportano esattamente sulle strade calcate in precedenza, con Lara come sempre alle prese con la Trinità, un’antica organizzazione paramilitare, dai tratti quasi esoterici e mistico-religiosi, che mira a controllare il mondo e il destino dell’umanità: un intreccio narrativo che non ha mai fatto mistero di volersi ispirare a quello che qualche anno fa veniva definito il capostipite dei videogiochi d’avventura moderni, ossia Uncharted: Drake’s Fortune, e ai suoi seguiti (anche se col senno di poi la saga di marca Naughty Dog è stata molto meno “adventure” del previsto). Nei due capitoli precedenti, soprattutto nel primo, molti aspetti erano solamente abbozzati e veniva lasciato uno spazio enorme, quasi eccessivo e ridondante, all’introduzione dei personaggi, ciò soprattutto per poter metabolizzare i cambiamenti che Lara e la serie attorno a lei avevano subìto. Ne veniva fuori una storia che non faceva altro che scimmiottare canoni già esistenti, spesso finiva per sembrare la parodia di sé stessa e a tratti non si riusciva nemmeno a prendere troppo sul serio. Da quei tempi, però, ne è stata fatta di strada: visto oggi, Rise of the Tomb Raider, che pure ha rappresentato un importantissimo passo intermedio, sembra soltanto un lontano parente del suo sequel. Chiamatela evoluzione, chiamatela come vi pare, ma il terzo capitolo della trilogia reboot è riuscito a rendere quasi obsoleti gli altri due. L’intera avventura, aiutata anche da toni un po’ più cupi e votati al fatalismo generale, ha una forza, un carattere e un’umanità che mai mi sarei aspettato di trovare all’interno di questa trilogia, cresciuta essa stessa insieme alla sua protagonista, finalmente splendente di luce propria. Lara ha concluso il suo percorso di maturazione ed è ora un personaggio più complesso e finalmente dotato di una caratterizzazione forte ed incisiva, a tratti forse un filo più fredda, ma anche più umana. Nelle scene d’intermezzo, realizzate con una qualità che finalmente riesce davvero ad arrampicarsi fin quasi al livello di un Uncharted qualsiasi, vediamo un’eroina che si è lasciata alle spalle i tormenti del passato ed è piu forte e determinata che mai, accompagnata dagli amici di sempre, ma senza più la necessità di essere sorretta da nessuno. Il fatalismo a cui avevamo accennato non è casuale: nelle fasi introduttive, che fanno da preludio alla storia, Lara si rende conto di aver commesso un tremendo errore, e di lì in poi fa di tutto per risolvere la situazione, mostrando con forza il suo lato più umano, ma facendolo senza le esagerazioni da ragazza fragile e indifesa delle precedenti avventure. Ciò non vuol dire che l’intreccio abbia perso il suo lato più leggero, ma semplicemente che quest’ultimo – quando serve – è presentato in maniera meno involontaria che in passato, circondando la protagonista e la storia attorno a lei di un alone ben piu marcato di credibilità.
Un altro cambiamento, che molto fa nel costruire un’identità nuova all’intera esperienza attorno a Lara, sta nella nuova ambientazione: la giungla, che rimane più o meno una costante per gran parte della durata della vicenda principale (se si escludono alcuni momenti) e si sostituisce ai paesaggi innevati e ai deserti visti in Rise of the Tomb Raider, per tornare a una palette cromatica più affine a quella del capitolo del 2013; ciò, comunque, non ne pregiudica l’identità visiva, anche viste le differenti culture (principalmente Inca) che Lara si trova a indagare. Nuova giungla, nuova Lara, come avevamo detto: più consapevole del pericolo imminente e delle azioni che è chiamata a compiere – anche soltanto per “dovere”: in questo non potrebbe essere più simile alla vecchia eroina di Core Design – si ritrova meno sola e abbandonata a sé stessa. La maggior credibilità e sicurezza narrativa di SotTR si trasla in qualche modo anche nella struttura del gioco, rimasta perlopiù ancorata alle certezze del precedente episodio – che d’altronde funzionava, e anche bene – ma con intelligenti aggiunte e limature generali volte a rendere l’esperienza più fruibile e smussata. Sono state inserite, ad esempio, una moltitudine di nuove animazioni che ora permettono alla nostra eroina di muoversi e di interagire in maniera più naturale e organica con l’ambiente che la circonda, in particolare nelle arrampicate, oltre a qualche opzione contestuale aggiuntiva, come la possibilità di nascondersi fra gli arbusti rampicanti mentre è appoggiata ad un muro o di fare uso di ben quattro power-up legati principalmente alla cura e alla percezione, quest’ultima un po’ meno dipendente dalla classica modalità detective in stile occhio dell’aquila. Sparatorie e fasi stealth sono state riviste in positivo, le prime un po’ più godibili e frenetiche, le seconde più attente e rifinite, oltre che dotate di maggior peso specifico all’interno del gioco: Lara può cospargersi di fango per eludere alcuni nemici con visori termici e può trovare riparo in un numero maggiore di nascondigli, come i rampicanti sopracitati, il che le permette di superare un maggior numero di sezioni senza essere vista. I potenziamenti alle armi e le abilità sono invece rimasti quasi invariati, se si escludono alcune skill relative al nuoto: l’open world di Tomb Raider è stato infatti arricchito della possibilità di esplorare davvero – e non sottoforma di immersioni fittizie – i fondali subacquei, cosa che permette alle mappe di acquisire maggior profondità e verticalità. La struttura a corridoio delle fasi acquatiche di Rise è ancora presente, specie nelle zone di collegamento, ma se non altro ora capita spesso che quanto accade sotto il pelo dell’acqua si integri molto meglio con gli eventi sulla terraferma. Per il resto, l’esperienza rimane legata a doppio filo ad una progressione sostanzialmente tradizionale, che non inserisce nulla di nuovo né innova in maniera particolare: del resto, sotto questo punto di vista non ce n’era granché bisogno. Anche le tombe e le cripte, apprezzatissimi diversivi dei due precedenti episodi, tornano pressoché immutate nella concezione e nella struttura (ma non nel numero: ora sono molte di più), con obiettivi sempre piuttosto intuibili e mai troppo complessi, aggiungendo al massimo qualche puzzle acquatico che rende giustizia alla possibilità di immergersi ed esplorare le profondità sottomarine.
Il design degli scenari è sempre coerente con la storia e molto ben fatto: le due componenti vanno più di pari passo che nei due reboot precedenti, e non si ha mai la sensazione di girellare a vuoto. Qualunque cosa stiate facendo, percepirete sempre una distinzione precisa fra percorsi principali e secondari; ciò vi permette, se volete godervi l’esperienza in modo più tranquillo, di farlo senza troppi patemi, anche grazie alle numerosissime opzioni e alla difficoltà personalizzata, tarabile separatamente per i combattimenti e l’esplorazione. Le missioni secondarie e le sfide, poi, a parte qualche raro caso, non sono mai così interessanti al pari delle vicende principali, tanto che, per essere apprezzate al meglio ed evitarvi la classica struttura a mo’ di lista della spesa andrebbero affrontate ai livelli di difficoltà più estremi, disabilitando tutti gli aiuti e i suggerimenti. Shadow of the Tomb Raider possiede due anime: una tranquilla, l’altra brutale e spietata. Sta soltanto a voi scegliere come giocarlo, anche se, qualsiasi cosa decidiate di fare, vi ritroverete a vivere un’esperienza sensibilmente migliorata nel suo complesso rispetto al passato. Peccato che, al momento, il gioco soffra ancora di qualche magagna tecnica: nella nostra prova su Xbox One X, in modalità “frame rate elevato” la fluidità crollava nelle zone cittadine e in quelle un po’ affollate, esibendo anche diversi gravi episodi di tearing nelle situazioni più problematiche; allo stesso tempo, selezionando “alta risoluzione” abbiamo avvertito qualche problemino di frame-pacing, forse in parte sistemabile a suon di aggiornamenti. Il consiglio, che stiate giocando a 1080p o in 4k, è quello di affidarvi almeno per ora alla seconda fra le due, un po’ più curata e ottimizzata e molto meno avara in termini di soddisfazioni visive, benché il dimezzamento degli FPS – sulla carta, almeno – possa non piacere e richieda un po’ di abitudine.
Shadow of the Tomb Raider si basa tutto attorno ad un assunto: realizzare un capitolo della serie che sia finalmente in possesso delle caratteristiche mancanti per poter essere definito un gioco eccellente e un capolavoro nel suo genere. E ci riesce, mettendo a posto diversi strafalcioni nella narrativa, che ora è ben più matura, limando ulteriormente una struttura di gioco dal sapore già classico e soprattutto rimanendo saldamente ancorato ad una protagonista che non avrebbe potuto subire un’evoluzione migliore nel corso di questi anni. Lara Croft è sempre Lara, insomma, ma quella di SotTR è la miglior versione che la serie abbia mai potuto sfoggiare, di recente e non (la “vecchia” lasciatela da parte, perché era molto diversa). La nuova trilogia, d’altronde, serviva proprio a rendere lei un personaggio in carne ed ossa ancor prima che un’icona, e a trasformare la sua serie da reliquia della storia dei videogiochi a pietra miliare dell’epoca moderna. Operazione riuscita? A questo punto possiamo dirlo: assolutamente si.