Non è morto ciò che può giacere in eterno. Anche per i videogiochi è così, specie nel momento in cui rimangono per troppo tempo in sospeso, nel sofferto limbo fra il disperato raggiungimento della loro visione originaria e l’accettazione dei propri limiti. È esattamente questo il caso di Call of Cthulhu, l’avventura dei Cyanide Studio e di Focus Home Interactive ispirata ai racconti del grande maestro dell’orrido Howard Philips Lovecraft, in particolare all’immenso pantheon che, in maniera più libera e romanzata, ha propiziato anche la realizzazione di Bloodborne. Figlio di un annuncio forse troppo prematuro e risalente addirittura a quasi cinque anni fa, il gioco dei creatori di Adventures of Sherlock Holmes ha dovuto lottare e sgomitare per diversi anni prima di poter vedere la luce in fondo al tunnel, dal quale, però, è uscito forse fin troppo distorto e piuttosto mutilato. Proprio come i racconti ai quali fa riferimento, del resto. Il che è positivo. O no?
A prima vista, Call of Cthulhu è pure riuscito a farmi innamorare. Delle sue atmosfere, dei suoi giochi di luce, dei dettagli macabri e di tanti piccoli dettagli che chiunque abbia letto qualcosa di Lovecraft riconoscerà senza dover nemmeno aguzzare lo sguardo: l’immaginario a metà fra scienza, fantastico e orrore, la presenza di fenomeni inspiegabili da qualunque sostenitore del metodo scientifico e della geometria euclidea, il giocare a metà fra il reale e l’occulto. C’è poco da dire: se siete avidi lettori delle opere dello scrittore di Providence, o lo siete stati in passato, probabilmente amerete qualsiasi cosa vi venga messa davanti agli occhi, presentata, tra l’altro, secondo lo stile inconfondibile tipico del visionario saggista americano. Non è tanto la storia in sé, però, a colpire: il plot è infatti piuttosto banale, e sembra a tratti quasi un pretesto per tradurre una dopo l’altra in salsa ludica le più belle trovate di stile del ciclo di Cthulhu. Il protagonista, il detective privato Edward Pierce, è un personaggio piuttosto banale e costruito su basi non proprio solidissime. Non molte cose funzionano, nella sua caratterizzazione: il racconto del suo passato, il modo in cui viene coinvolto nella vicenda, la spiegazione di come egli stesso sia colpito dalle visioni dei Grandi Antichi, (tranquilli, non è uno spoiler), tutto appare un po’ troppo annacquato, anche per lo stile distorto del racconto. I comprimari, tranne forse un paio di eccezioni che riescono a rubare la scena, non sono nulla di eccezionale, e rimangono spesso sullo sfondo, ad un livello abbastanza approssimativo; buona parte delle 10-12 ore che serviranno per giungere ai titoli di coda ruota attorno a Edward e alla sua discesa in un pozzo di follia, alle prese con sé stesso oltre che con inspiegabili misteri, ma senza la necessaria verve che servirebbe ad un’avventura del genere per centrare il bersaglio. La storia in sé, malgrado ci provi, non riesce a coinvolgere come dovrebbe, ed è proprio per questo che fin dalle prime battute si tende a concentrarsi più sull’atmosfera, sulla costruzione del mondo di gioco, su quel che si vede e non si vede: qui, come detto, c’è davvero poco di cui lamentarsi, e i fan più appassionati di Lovecraft andranno probabilmente in brodo di giuggiole per la mole di citazioni e riferimenti presenti, frutto di un’analisi e di un processo di ricostruzione e interpretazione quasi maniacale delle sue opere. È possibile perdere ore ed ore per scoprire tutto quanto, lanciandosi in ardite elucubrazioni narrative: se amate questi aspetti, molto specifici in realtà, vi siete già ripagati in buona parte il – non trascurabile – prezzo del biglietto.
Cos’è, dunque, che non va? Piuttosto potremmo parlarvi per ore di quel che funziona, ovvero scenari ed atmosfera generale, ma così sarebbe troppo facile. Partiamo da una delle poche note in cui quantomeno si è provato ad offrire buoni spunti dal punto di vista ludico, salvo poi finire un po’ fuori fuoco: il sistema delle abilità, fortemente legato alle opzioni di dialogo e all’esplorazione. Completando obiettivi primari, esplorando il mondo di gioco e parlando con i personaggi secondari (un paio dei quali, nonostante la storia non irresistibile, riescono anche ad essere piuttosto credibili) Edward può infatti ottenere diversi skill point da assegnare a cinque tratti: Fiuto, Psicologia, Investigazione, Forza ed Eloquenza, oltre a Medicina ed Occultismo, questi ultimi migliorabili solamente scovando i relativi collezionabili nascosti (ma neppure troppo) nel mondo di gioco. Sulla base di tutto ciò, vi vengono spesso offerte opzioni di dialogo contestuali che richiedono un certo grado di abilità per poter progredire, anche se queste ultime si mostrano effettivamente utili soltanto quando si tratta di scoprire segreti del tutto opzionali o attivare incontri e dialoghi secondari. C’è sempre un’opzione per sviluppare ulteriormente la storia al di là del modo in cui gestiamo l’avanzamento delle abilità, e, malgrado in alcuni casi sarebbe in teoria possibile “facilitarsi la vita” grazie ad esse, questa possibilità si riduce alla semplice presenza di qualche percorso alternativo per portare a termine i livelli, spesso legato alla forza più che all’ingegno, o viceversa. Nel gioco non ci si limita nemmeno a parlare dall’inizio alla fine, anche se forse sarebbe stato meglio così: alcuni momenti, che potremmo banalizzare con un semplice gioca a nascondino, fanno chiaramente il verso ad Outlast nella struttura, pur senza incutere lo stesso terrore: gli obiettivi da completare, molte volte, sono volutamente intricati e poco chiari, senza neppure indizi visivi o sonori a venirci in aiuto. In tali sezioni, il gioco si affretta ad accavallare uno sopra l’altro tutti i suoi spunti di gameplay che non abbiano a che fare con la narrativa e i dialoghi contestuali, separandole forse fin troppo brutalmente da tutto il resto. Se catturato, peraltro, Edward andrà irrimediabilmente incontro al game over, senza la possibilità, neppure opzionale, non solo di combattere, ma nemmeno di fuggire e nascondersi: una scelta snervante e inspiegabile, neanche mettendo in mezzo la volontà di offrire un’esperienza più hardcore. Se non altro, il tempo in cui si può rimanere nascosti – nei soliti armadietti – è limitato, a causa della claustrofobia del protagonista e della sua facile tendenza agli attacchi di panico, che gli impediscono di ragionare e lo portano lentamente alla pazzia: un’idea, questa, piuttosto convincente e mutuata dalle opere di Frictional Games (Amnesia), ma affiancata da qualche problema nelle fasi stealth, come un’IA un po’ troppo sommaria e sezioni ben più fiacche di altre, che non aiutano a mantere il ritmo costante. Del resto, lo sapevamo: tra i punti di forza di Call of Cthulhu non c’è mai stata (né è voluta esserci) un certa stratificazione nelle meccaniche.
Avevamo accennato al fatto che uno degli elementi potenzialmente interessanti dell’avventura potesse essere l’esplorazione, la scoperta di enigmi opzionali e nascosti: ebbene, anche qui ad un buon sottesto narrativo (del resto con Lovecraft si va sul sicuro) fa eco una realizzazione un po’ deludente, anche nel level design, generalmente privo di sufficiente ispirazione da riuscire a stupire, anche nelle sezioni meno guidate, che si riducono ad un lungo peregrinare nei corridoi nella speranza di trovare il fatidico oggetto (o gli oggetti) in grado di sbrogliare la matassa. In determinati momenti è possibile fare uso di una modalità investigazione, per individuare uno o più indizi nascosti in una stanza, ma anche qui, pur funzionando nel suo complesso, si tratta di un elemento utile soltanto ai fini del racconto (come scoprirete poi) e per il resto pressoché superfluo: gran parte dell’avventura, così facendo, si risolve spesso nel dover aguzzare la vista per trovare certi dettagli all’apparenza insignificanti ma fondamentali per far progredire la storia. Vi garantiamo che in alcuni casi, come quando vi viene richiesto di esaminare oggetti microscopici, potreste davvero perdere la pazienza e mettervi a lanciare pesanti invettive all’indirizzo dello stesso Cthulhu (a vostro rischio e pericolo, eh). Scherzi a parte, è un vero peccato, perché poi, come dicevamo in apertura, il gioco c’è eccome a livello di ricostruzione e di bontà visiva, pur poggiando su un impianto tecnico claudicante e parecchio instabile, soprattutto se non si gioca su PS4 Pro o One X, ciò anche al netto di possibili patch day-one. Se siete disposti a farvi bastare l’amore sconfinato per le opere di Lovecraft che Call of Cthulhu trasuda da ogni poro, questo è con ogni probabilità il gioco per che fa voi. In caso contrario, forse dovreste pensarci due volte prima di fare il grande passo.
Call of Cthulhu è la perfetta dimostrazione di quel che un annuncio troppo prematuro può combinare in una produzione di media caratura, realizzata con amore e passione ma in maniera forse troppo frettolosa. La sua atmosfera, curata al limite del maniacale e con tantissimi riferimenti alle opere originali, è l’unico elemento che è riuscito davvero a stupirci e a svettare oltre la media delle produzioni di questo tipo. Se sul frontespizio in copertina ci fosse scritto a caratteri cubitali “riservato ai soli appassionati di H.P. Lovecraft” noi non avremmo remore a consigliarvelo senza se e senza ma: il problema è che così non è. Il vero problema di Call of Cthulhu è che riesce sì ad appassionare, ma quando si tratta di divertimento duro e puro, la produzione di Cyanide vive su un vero e proprio ottovolante. E questo, per un prodotto che alla fine deve saper fare anche il videogioco, è un problema non da poco. Speriamo che gli sviluppatori riescano a fare tesoro delle sue magagne e dei feedback ricevuti, per rifinire ulteriormente l’esperienza nei loro futuri progetti.