Risalente al famoso periodo di intervallo tra una Jobs Era e l’altra, il progetto Pippin saltò fuori dalle fucine della Apple intorno alla metà degli anni ’90, periodo in cui molti marchi sostanzialmente estranei al mondo dei videogiochi tentarono di entrare nel business delle console sfruttando l’assist dei novelli supporti digitali.

Memori del fallimento registrato ad inizio decennio da Philips con lo sfortunatissimo CD-i, i vertici della compagnia di Cupertino decisero inizialmente di allinearsi alle strategie di mercato adottate prima da Sega con il Mega CD e quindi dalla 3DO Company di Trip Hawkins con l’omonima console: non appena delineati i connotati tecnici del progetto essi optarono infatti per affidarne lo sviluppo a terzi.

Ad aggiudicarsi quello che, almeno inizialmente, dovette apparire come un appalto molto vantaggioso sarebbe stata Bandai, all’epoca uno tra i colossi industriali nipponici di maggior rilievo, che aveva peraltro mostrato già interesse a produrre un hardware basato proprio su tecnologia Macintosh. Per un brevissimo intervallo di tempo, furono in tanti ad ipotizzare un futuro più che roseo per la novella joint, ma le cose avrebbero presto preso una piega differente.

Ancor prima di levare i calici al varo della macchina, i responsabili del progetto si resero infatti conto di non avere le spalle abbastanza larghe per far fronte alla concorrenza: troppo saldi i rapporti tra Sega, Nintendo e gli sviluppatori più in voga all’epoca, troppo evidente la carenza di esclusive da abbinare al lancio dell’iniziativa e troppo poco il tempo a disposizione per realizzarle internamente.

Se aggiungiamo al tutto il mancato supporto di Electronic Arts già legata a doppio nodo col progetto 3DO e l’imprevedibile successo registrato dalla Playstation Sony nei suoi primi mesi di vita, è facile comprendere i motivi della repentina debacle che travolse il Pippin.

Dopo una sterile apparizione sui mercati nipponico e statunitense a cavallo tra il 1995 ed il 1996 che fruttò alla Bandai un venduto pari ad appena 42.000 unità su 100.000 pezzi prodotti, la compagnia nipponica decise di porre fine alla produzione hardware, non prima di aver girato i diritti di sviluppo del sistema alla major norvegese Katz Media.

Schernita dai media e mortificata di un catalogo software comprendente poco più di una ventina di titoli, la prima e finora unica console mai concepita da Apple sparì dunque dalla circolazione sul finire del 1997, lasciando dietro di sé uno stuolo di promesse mai mantenute… E una comunità di collezionisti quanto mai attiva.
ACCESSORI E PERIFERICHE
Il Pippin disponeva di una nutrita serie di accessori e periferiche. Ad eccezione del Pad, nessuna di esse trovò concreti margini di applicazione.
Caratterizzato dalla seducente linea aerodinamica, ma non proprio ergonomico, quest’ultimo presentava inquietanti analogie col Duke, futura interfaccia di controllo della prima Xbox: notare ad esempio la distribuzione e la colorazione dei pulsanti principali.
Nel caso in cui qualcuno avesse avvertito l’impellente necessità di utilizzare la console come un vero PC, sarebbe stato anche possibile collegarvi la pratica tastiera da viaggio con tanto di Pannello LCD Laptop e penna ottica di supporto.
Evidentemente incerti della concreta affidabilità dei CD, i progettisti della console optarono anche per la produzione di un’add-on adibito alla lettura dei comuni floppy da 3.5 Pollici, il quale andava eventualmente collocato al di sotto della macchina e collegato ad essa tramite apposito plug.
Dulcis in fundo, la possibilità di collegare alla macchina un prodigioso Modem a 14.400 bps grazie al quale la console avrebbe potuto navigare su Internet sfruttando l’esclusivo Bandai Digital Entertainment Management: un servizio web gestito dall’omonima compagnia nipponica il cui costo era di circa 2.000 Yen mensili, escluse spese di abbonamento telefonico.