Il titolo che avete appena letto può essere interpretato in due modi, sia come morte definitiva che come rinascita inaspettata, a un passo dal baratro. Per BioWare, Anthem rappresenta proprio questo, un videogioco il cui fallimento è con ogni probabilità destinato ad apporre una pietra tombale sulla sua storia ultraventennale e il cui successo, invece, può rilanciarla con forza in un mercato che fino ad oggi non era mai stato suo, quello dei game as a service, videogiochi con anime differenti, ma accomunati dalla volontà di crescere ed espandersi con il tempo.
In entrambi i casi, è bene capire che la compagnia che conoscevamo è già morta e sepolta da tempo, con gli addii degli storici fondatori Greg Zeschuk e Ray Muzyka: il progetto Anthem, infatti, è partito da un concept ben lontano da quello che ha sempre reso famosa la casa canadese, maestra nel valorizzare l’anima più narrativa del videogioco e nell’emozionare il giocatore immergendolo in storie e universi indimenticabili. Anthem non è nulla di tutto ciò; piuttosto, è qualcosa di diverso, una nuova creatura basata sui recenti successi degli Shared World Shooter, videogiochi, come Destiny e The Division, che negli ultimi anni sono letteralmente esplosi, inondando il mercato di esperienze in continua evoluzione, oltre che di una serie di ragionamenti legati al valutare un videogioco “strada facendo”. E, anche se fa molto male dirlo, per poter seguire questo filone e dare ad Anthem (e provare a darsi essa stessa) una nuova ripartenza, BioWare ha dovuto recidere quasi del tutto ogni legame con il suo passato.
Non di sole leggende si vive, all’interno delle mura di Fort Tarsis. C’è un intero insediamento da mandare avanti, vite, famiglie, persone, ognuna con le sue storie e i suoi intrecci. Se ci avete letto qualche giorno fa, nel nostro primo contatto con l’opera di BioWare, saprete già che la narrativa non è affatto il punto sul quale l’esperienza offerta da Anthem trova i suoi cardini più profondi, ma, anche su un simile palcoscenico, diverso dal solito, è comunque impossibile ignorare che a muovere i fili del racconto è un burattinaio obbligato a confrontarsi con un’ingombrante eredità. La storia di Anthem parte da una premessa semplice, eppure ben pensata, che ruota attorno a una forza potentissima e che si ritiene impossibile da gestire e ingabbiare: l’Inno della Creazione. In tanti si sono battuti per il suo controllo, riducendo l’umanità, confinata entro città-fortezze protette da altissime mura, ad una sorta di guerriglia perenne contro i cataclismi scatenati dall’Inno stesso e contro il Dominio, misteriosa organizzazione che brama il totale controllo dell’Inno. Noi non siamo che una parte e una pedina, benché centrale, di questo grande disegno: abilissimi piloti detti Specialisti, unici nel loro genere perché in grado di pilotare gli strali, armature corazzate fondamentali per sopravvivere alle mostruosità del mondo esterno. Da un tale leitmotiv, però, la narrativa non si espande a macchia d’olio e in maniera incontrollata, ma viene (e verrà) piuttosto dilazionata a piccoli passi, in modo progressivo e senza disvelarsi eccessivamente fin da subito. Per ora, però, anche per via del modo in cui è stata gestita, la trama di Anthem deve fare i conti con una forza espressiva molto blanda e con vicende che, pur partendo da una premessa interessante e resa visivamente in modo superbo, finiscono per avere uno svolgimento poco coinvolgente. Le missioni che compongono la campagna non sono punteggiate da chissà quali guizzi o ispirazioni, se si escludono un paio di colpi di scena in realtà abbastanza telefonati, e possono essere completate nell’arco di una ventina di ore; manca poi quasi del tutto quell’alchimia, nei dialoghi, nelle espressioni e nelle reazioni dei protagonisti e dei comprimari (che si mantengono sempre sul piatto andante) necessaria a creare una qualche immedesimazione coi personaggi stessi. Vero è che Anthem non punta a strutturare (non subito, almeno) chissà quale comparto narrativo, ma insomma, vedere BioWare (benché non più la stessa che dieci anni fa scriveva la superba sceneggiatura di Mass Effect 2) ridotta a confinare un universo potenzialmente così interessante fra quattro claustrofobiche mura, senza sviluppi realmente concreti al loro esterno, fa un po’ male al cuore. In tal senso, esistono comunque alcune quest esclusivamente dialogiche che coinvolgono alcuni NPC e si dipanano interamente – nel giro di poche battute – nel mercato, nel bar, fra i corridoi e nella piazza principale di Fort Tarsis, ma suonano un po’ come una macchietta e una beffa rispetto a quel che la nomea dei loro autori suggerirebbe; cosa ancor più grave, poi, si ha la percezione che siano quasi del tutto slegate rispetto a quel che accade oltre le mura di pietra e acciaio, lasciando al solo Cortex (una vera e dettagliatissima enciclopedia) il compito di fungere da Grillo Parlante, guidando il giocatore all’interno di un universo dal potenziale infinito, ma per ora espresso soltanto in piccola parte.
Già, perché poi, quando si esce all’esterno per la prima volta, pronti a tuffarsi nel vivo dell’azione, Anthem cambia letteralmente volto. Non più stanco cantastorie, come appariva dentro le possenti mura cittadine, quanto – finalmente – sparatutto in terza persona veloce e frenetico, quasi schizofrenico, come mai se n’erano visti prima d’ora in quest’ambito. Non vi mentiamo se diciamo che la prima volta che si assume il controllo di uno strale è un’esperienza unica e indimenticabile, destinata a rimanere per sempre impressa nella vostra memoria di videogiocatori. Anthem, infatti, basa una parte fondamentale del suo nucleo ludico proprio sulla piacevolezza quasi infantile che si prova nel controllare una di queste possenti armi da guerra, librandosi nei cieli di Bastion (così si chiama il mondo di gioco) come neanche un novello Icaro. La regione che circonda Fort Tarsis è enorme, non solo in senso longilineo, ma anche verticale: ciò che più (e meglio) caratterizza le nostre esplorazioni è infatti la possibilità di muoverci come meglio desideriamo entro uno spazio ben definito, potendo persino esplorare – con determinati limiti – anche i fondali subacquei, spesso integrati a mo’ di passaggi dal punto A al punto B all’interno dei dungeon che, in missione, ci troviamo a calcare. I quattro strali, Guardiano, Tempesta, Intercettore e Colosso, restituiscono poi sensazioni uniche: sceglierne uno piuttosto che l’altro mette in mostra idee e soluzioni del tutto differenti, delineando un mutamento imparagonabile, per intenti, alle sfumature più o meno marcate offerte dal cambio di una classe in Destiny o di una build in The Division. Basta trasferirsi di strale in strale (che tra l’altro impedisce anche di vedere in faccia il proprio pilota, rendendo superfluo il rudimentale editor di creazione iniziale) ed ecco che Anthem si trasforma radicalmente, fin dalle meccaniche più basilari come il salto e la schivata, cambiando in maniera camaleontica le sensazioni offerte per adattarsi a quanti più stili di gioco possibili. E la cosa, incredibilmente, funziona a meraviglia. Il sistema di movimento, liberandosi delle catene che lo tenevano ingessato a terra, riesce a esprimere in maniera perfetta e certosina tutto quel che in Mass Effect: Andromeda era stato solamente abbozzato. Ne giovano anche il feeling con le armi e l’uso delle abilità: benché il feedback legato al loro utilizzo non sia ancora impeccabile (BioWare ha ancora tanto da imparare da Bungie, in merito), i passi in avanti fatti sono notevoli, e lo “scalino” in termini di semplice godibilità dell’esperienza è stato superato, anche grazie alla meccanica fondamentale che regola l’uso delle skill: le combo elementali.
Gli strali, infatti, possono combinare le proprie abilità, basate sull’uso del ghiaccio, del fuoco, del veleno e via dicendo, per infliggere ancor più danni ai mostri o ai nemici di turno: scagliare una palla di ghiaccio con Tempesta così da permettere all’Intercettore di moltiplicare in maniera esponenziale i propri danni corpo a corpo non è che uno dei tantissimi esempi di combinazioni ben riuscite, la cui padronanza è assolutamente vitale per cavarsela nelle fasi e nelle istanze avanzate. Benché poggi ancora su basi da gioco di ruolo, Anthem è infatti strutturato come un vero e proprio MMO, specie nella progressione che conduce all’endgame, fortemente basata attorno alla gestione e al potenziamento del proprio strale. Anzi, dei, al plurale, dato che ci viene fortunatamente permesso di portarli avanti grossomodo insieme, soprattutto nel corso della storia, grazie all’esistenza di componenti universali e utilizzabili da tutti e quattro. Raggiunto un buon livello, poi, parte la vera e propria caccia al drop e agli item specifici (comprese alcune categorie di armi pesanti, utilizzabili solo dal Colosso) per potenziare e raffinare al massimo le proprie build, in modo da non trovarsi impreparati per i livelli di difficoltà pù alti. Per facilitare in parte le operazioni è presente anche un sistema di crafting, piuttosto rudimentale e basato su parti di creazione diverse per ogni strale, combinabili per dar vita a oggetti di rarità differenti. Questo semplice sistema di lavorazione può essere espanso e dare accesso a nuovi progetti di grado maggiore in base alle attività svolte per ognuna delle tre fazioni, che si suddividono fra i nostri compagni Specialisti, gli Arcanisti (studiosi e letterati) e le Sentinelle (i difensori della città). Il modo migliore per ottenere componenti e armi più potenti rimane comunque dropparle in missione: in questo senso emerge piuttosto forte una componente da Diablo-like, con un endgame che per il momento è quasi del tutto strutturato “a scalini”, dal livello Facile fino al Gran Maestro 3, una sfida davvero improba e adatta solamente ai team più affiatati. La gran parte dell’avventura, intendiamoci, è godibile e adatta a tutti, oltre a fungere da perfetto tutorial per quel che verrà dopo, senza mai porre di proposito i giocatori di fronte a sfide insormontabili; al contrario il livello di sfida, finché non si decide di alzare la difficoltà e puntare ai gradi di maestria, rimane sempre sensato nel bilanciamento di armi e abilità. Anche gli oggetti ottenibili formano una “scala” pressoché lineare verso il livello massimo, evitando la relativa parsimonia del sistema di Destiny, ma piuttosto abbracciando la filosofia opposta, con un drop ben più generoso anche nei gradi epico e mitico: la vera sfida, infatti, non sta tanto nell’ottenere singoli oggetti di simile rarità , quanto nella spasmodica ricerca dei loro perk migliori, per costruire lo strale perfetto.
Esaltazione per le sparatorie a parte, i problemi di cui al momento Anthem soffre sono però tanti, e non si limitano alla pochezza della narrazione e a un endgame interamente costruito soltanto attorno alla difficoltà (quest’ultimo, per certi versi, non è un vero problema), ma vanno ben oltre, esprimendosi soprattutto in una struttura generale desolatamente piatta e banale. Per la gran parte del tempo, il gioco ci richiede di svolazzare in giro per la mappa open world e per i dungeon in cui si svolgono le istanze più ardue, ammazzando nemici e al massimo completando piccole sfide poco stimolanti, nell’ambito di un sistema che, per reggersi sulle sue gambe, fa affidamento – in parte riuscendoci, e meritatamente – solamente sulla piacevolezza del gameplay. Per intenderci, non si tratta di nulla di drammatico: la ripetitività è infatti intrinseca in questo genere e anche Destiny, The Division e compagni soffrono di una strutturazione simile, che antepone il diverso approccio alle missioni in base alla classe (e la loro godibilità se giocate in squadra) alla varietà dei singoli obiettivi al loro interno. Da BioWare, però, avremmo preferito qualche guizzo in più dell’ammazzare orde di nemici e risolvere enigmi a prova di idiota, che nel migliore dei casi richiedono di girare e allineare colonnine in base alle figure dipinte sui muri attorno a noi. È davvero un peccato, perché poi il sistema di combattimento, incentrato su quattro classi dai ruoli diametralmente opposti l’uno rispetto all’altro, funziona dannatamente bene: così invece la sensazione è quella di avere un’auto potentissima che rimane quasi sempre parcheggiata nel vialetto di casa. Se ci si limitasse all’analisi degli strali ci sarebbero fiumi e fiumi di parole da dire per approfondire quanto già accennato, a conferma della bontà del lavoro svolto da BioWare: non ci stancheremo mai di ribadirlo, ma è impressionante notare quanto diversamente essi vadano approcciati e giocati. Il Guardiano è una sorta di tuttofare, con abilità da DPS, un buono scudo e una buona mobilità, in grado di amalgamarsi bene con quasi tutte le tattiche di squadra; il Tempesta è il glass cannon del gruppo, fragilissimo ma dai danni elementali incredibili, oltre che costretto a librarsi sempre in aria, protetto dal suo scudo naturale, per non essere abbattuto in tre colpi; l’Intercettore, grazie alla sua mobilità e alle abilità corpo a corpo, trasforma l’azione in una sorta di spassoso hack’n slash; il Colosso, infine, è il tank del gruppo, capace di assorbire una esagerata quantità di danni, nonché l’unico dotato di uno scudo manuale ed estraibile per rianimare in sicurezza i compagni. Tutti e quattro, fusi insieme, danno vita alla squadra perfetta, senza punti deboli, creando un’alchimia che BioWare avrebbe effettivamente potuto (ma ha ancora tempo per farlo, dopo il lancio) sfruttare molto meglio del continuo vomitare loro addosso orde di nemici da eliminare, con variazioni sul tema quasi inesistenti (semplici fasi di raccolta componenti e di difesa di una posizione).
La situazione non migliora nella varietà e nella strutturazione delle tipologie di missioni, soprattutto una volta giunti all’endgame. Alle classiche quest della storia, che si esauriscono piuttosto rapidamente, si affiancano infatti solamente le “missioni agente” e i contratti. Nel primo caso si tratta di linee narrative – neppure così indimenticabili, anzi – che si snodano in una manciata di compiti secondari, anch’esse destinate ad esaurirsi, almeno fino all’arrivo di nuovi contenuti. I contratti, invece, sono missioni singole e rigiocabili, anche e soprattutto nella loro variante leggendaria, caratterizzata da una maggiore difficoltà. Al momento, i contratti – normali o leggendari – sono una delle tre attività (si, avete capito bene, tre) con cui ci si può sollazzare dopo aver finito tutto il resto: le altre due sono il gioco libero, che permette di esplorare a piacimento il mondo esterno e completare dungeon ed eventi pubblici (anch’essi strutturati attorno alle stesse meccaniche che regolano l’andamento delle missioni) e soprattutto le roccaforti, che, nella sostanza, potrebbero essere assimilate a lunghi contratti più difficili della media, con un boss unico da abbattere alla fine e ricompense dopo ogni step, in stile raid di Destiny, ai quali, comunque, non sono neanche lontanamente paragonabili per complessità. Una volta giunti all’endgame, dunque, dopo venti-trenta ore di gioco, tutto quel che si fa è continuare a ripetere le roccaforti e i contratti leggendari ancora e ancora, per raffinare il più possibile le proprie build, con l’unico baluardo della scalata alle difficoltà maggiori a reggere un sistema che, già dopo una settimana, comincia a boccheggiare nel disperato bisogno di nuove attività. Che perlomeno non tarderanno ad arrivare, con nuove infornate di contenuti già a marzo, aprile e maggio.
Tra gli extra, a onor di cronaca, vanno annoverate le tante sfide e imprese completabili, oltre che i collezionabili sparsi in giro per la mappa, la cui ricerca, considerata la verticalità e il design ben studiato di alcune location, può essere stimolante (ci auguriamo che BioWare ne inserisca altri nel corso del tempo) e impegnare per tante ore. Alcune pagine dell’enciclopedia che compone la lore di Anthem possono essere trovate anche esplorando da cima a fondo Fort Tarsis: diverse ci sono sembrate apparire dal nulla dopo aver finito il gioco, il che può essere uno stimolo a tornare su passi già calcati. Peccato che l’esplorazione cittadina sia davvero mal gestita, specie nella sua navigabilità: nel 2019, costringere i giocatori alla cara vecchia “spola” di manichino in manichino, senza un minimo di furbizia in termini di design, è qualcosa di obiettivamente inaccettabile; lo si fa, peraltro, in modo lento e frustrante, il che spinge a desiderare come non mai di poter tornare nel poderoso involucro del proprio strale. A ciò si unisce la quasi totale inutilità della zona di lancio, una sorta di officina in cui, se si esclude il poter interagire coi propri amici o con persone a caso prima di avviare una missione, non si fa nulla di esclusivo rispetto al resto dell’hub. Anche l’interfaccia riporta indietro di anni rispetto alla concorrenza: i menu sono gestiti in maniera poco intelligente, specie nell’impossibilità di esaminare l’inventario dei compagni (numerino che indica la potenza dello strale a parte) e, in gioco, di conoscere i tempi di recupero delle loro abilità, obbligando a fare ricorso alla chat vocale per coordinarsi. Piccolezze, tutto sommato, che però sarebbe stato facilissimo evitare: in questo senso è purtroppo evidente la relativa miopia che continua ad affliggere BioWare, incapace di accorgersi delle ultime evoluzioni e innovazioni in termini di design cui il mercato è andato incontro, volte a offrire un’esperienza generale sempre più intuitiva e meno inutilmente complessa.
A salvare Anthem in calcio d’angolo, oltre alla cura riposta nel suo lato più squisitamente ludico e chiassoso, è il suo comparto tecnico. BioWare ha fatto del suo meglio per sfruttare in maniera intelligente il Frostbite, motore in origine pensato per essere utilizzato soltanto con degli sparatutto in prima persona, sebbene il risultato finale non sia ovviamente quello – troppo “next-gen” per essere vero – promesso all’E3 di due anni fa. Poco male: l’impatto visivo è comunque niente male, e il mondo che circonda il nostro strale lascia senza fiato per vastità e complessità, spingendo in maniera considerevole l’hardware a disposizione anche su console. All’ottimo orizzonte visivo si unisce una stabilità sorprendente, che anche su Xbox One X mantiene quasi sempre stabili i 30 FPS, a fronte di una risoluzione 4K, pur sacrificando (e non poco) elementi come le animazioni facciali e la generale qualità delle texture del mondo di gioco. Presente il doppiaggio in lingua italiana, assente in Andromeda e che si lascia apprezzare, pur non aggiungendo nulla di significativo all’esperienza complessiva e non brillando per tono e interpretazione. Da menzionare, infine, la natura del tutto opzionale delle microtransazioni, legate unicamente a elementi estetici: l’aspetto dei propri strali può infatti essere modificato in maniera più che soddisfacente anche senza acquistare shards nel relativo negozio, dove è comunque possibile utilizzare la normale valuta di gioco.
L’ultima fatica di BioWare è un videogioco di difficile, difficilissima valutazione sul breve periodo, che andrà accompagnato e sostenuto con cognizione di causa nel processo evolutivo che potrebbe portarlo, infine, a sbocciare. Per ora Anthem rappresenta una discreta base su cui lavorare, specie nel suo impianto ludico, ben pensato e confezionato, ma è comunque un videogioco incompleto, pubblicato chiaramente in anticipo e fragile come un bicchiere di cristallo, con una quantità e qualità di attività che può stancare anche i più tenaci dopo una settimana o due. Il supporto post-lancio, con contenuti a cadenza periodica e che dovrebbero essere pubblicati da subito, fra pochi giorni, pare esserci. I prossimi tre mesi ci diranno già molto, anzi, moltissimo del futuro di Anthem, e dunque il voto, come per ogni live service game, non può che essere considerato nella sola ottica del lancio e del primo periodo. Resta da chiedersi se la buona volontà degli sviluppatori, con il supporto di pubblico e critica, gli basterà per inserirsi in un mercato in cui c’è sempre meno spazio per emergere. Dal canto nostro, ci auguriamo che le idee di BioWare sul supporto futuro offerto al gioco siano sufficienti a salvarla dalle fameliche fauci del suo publisher e che quest’ultimo, considerato il suo recente passato, abbia imparato la lezione e chiuso in soffitta a doppia mandata la tagliola che Visceral Games e altre software house, disgraziatamente, ben conoscono.