The Division 2 | “Se quella luce si spegne, chi ci salverà?”. Ecco: la premessa di The Division 2 nasconde, più o meno velatamente, il principio cardine di quella storia iniziata, tre anni prima, lungo le innevate strade di New York. Dalla Grande Mela a Washington, in una tiepida primavera per la civiltà, il concetto di “specie resiliente” si rafforza e si espande, dipingendo addosso al giocatore una responsabilità enorme. Ovvero, come agente di quella “Divisione” ormai ben nota alla community, scendere in strada e “tenere botta”. Resistere all’urto, insomma, rivendicando l’appartenenza al genere umano e a quella stessa civiltà messa in ginocchio dal caos prima ancora che dal terribile virus che ha dato i natali alla produzione. Resistere, reagire. Tenere accesa quella fioca luce di speranza che, dalla Casa Bianca, illumina ancora il nostro mondo.
Viva la Resistenza.
The Division 2: la Resistenza
Resistere appunto. Anche ad un’industria che, non sempre, perdona passi falsi. Nessun dubbio che The Division, il primo The Division, nel marzo del 2016 si presentasse come un prodotto incompleto, frutto di una buona idea, eppure castrato, forse, dall’inesperienza di Massive Entertainment con il mondo degli MMO. Un mondo, meglio, un universo costantemente connesso e condiviso, per una struttura di gioco che, pur rifacendosi a Destiny, appariva ancora acerba nelle premesse, per poi scricchiolare sotto il peso delle macerie newyorkesi e di un End Game deludente. Ubisoft, però, ha resistito. Lo ha fatto con un supporto che, negli anni, ha mutato i connotati della produzione, gettando le premesse per una saga che, con The Division 2, annulla i difetti, non completamente, ed espande, convintamente e convincentemente, i punti di forza del concept originario. Il risultato, per quanto il giudizio finale sull’opera resti affidato ai posteri, è degno di nota. Pur mantenendo alcune criticità naturali, intrecciate nel DNA del genere di riferimento, l’opera ultima di Massive diventa, curiosamente, icona stessa di resilienza, oltre che videogame Tripla A “destinato”, in che misura si vedrà, ad incontrare i favori del pubblico. Buongiorno, umanità. Benvenuta a Washington DC.
Sparatorie e coperture.
The Division 2: la Reazione
Reagire, certo. Superato un editor di creazione del personaggio piuttosto semplice, il “nostro” agente, chiamato dagli eventi già vissuti a New York nella capitale statunitense, è accolto dal fuoco nemico. I primi passi di The Division 2, per altro già effettuati nella Beta di qualche tempo fa, introducono il giocatore ai controlli più basilari. Il movimento, le coperture e, ovviamente, lo shooting. Rispetto al passato, il controllo appare più pesante, più realistico, con una gestione del “peso” sicuramente più appagante. Si scopre presto, nel nostro pellegrinare verso la Base Operativa, l’importanza delle coperture. La pioggia di proiettili sputata dai fucili nemici è incessante e richiede, per essere evitata, un continuo aggiramento degli avversari sfruttando in maniera costante le coperture offerte dallo scenario. Si avanza, insomma, di “muretto in muretto”, cercando di volgere a proprio favore le opportunità concesse dallo scenario. Certo, nelle prime fasi, le “abilità” in dote all’agente sono limitate, quasi nulle. Eppure, il “succo” del gameplay, che sarà espanso nelle ore successive grazie ai potenziamenti, c’è già tutto, complice anche una fase di shooting evidentemente mutata rispetto al passato. Senza girarci troppo intorno, The Division 2 è, pad alla mano, un gioco più lento, ragionato e strategico rispetto al predecessore, da cui eredità comandi e interfaccia, ma non i tempi e neppure i ritmi. Il cambio di “filosofia”, per quanto non radicale, è infuso anche nel level design. Passi per le prime sezioni, di fatto introduttive. Una volta “sbloccata” la Casa Bianca, il gioco ingrana la marcia per non fermarsi più, alternando missioni principali e secondarie ad una lunga serie di attività che, se da un lato inorgogliscono l’esplorazione della città, dall’altro valorizzano il gran lavoro di design degli ambienti, costringendo il nostro agente a pianificare, di volta in volta, il proprio percorso tra vie, piazze ed edifici. Nonostante richieda una connessione sempre attiva ai server di gioco, The Division 2, proprio come il primo episodio, può essere affrontato dall’inizio alla fine anche in solitaria, piuttosto che con un gruppo di altri 3 “colleghi”. Che si tratti di amici piuttosto che di sconosciuti arruolati alla bisogna tramite matchmaking, è palese come la struttura ludica messa in piedi da Massive Entertainment sia stata pensata con in mente il lavoro di squadra. Per quanto la maggior parte delle missioni principali si svolga al chiuso, i designer in forza ad Ubisoft hanno comunque sfruttato l’ampiezza degli edifici statunitensi, per altro rafforzata dalla particolare edilizia di una “città-ufficio” come Washington. Palazzoni istituzionali ed uffici amministrativi diventano, così, vere e proprie arene da studiare, e alle volte ristudiare, per avere ragione delle orde di nemici che, con generosità, la produzione ci rivolge contro. Ed ecco, allora, che il gioco di squadra e, perché no, la semplice comunicazione tra membri del team diventa un importante, ma non essenziale, valore aggiunto, quasi che il disegno di mappe e situazioni sia stato pensato per favorire convintamente le azioni di gruppo. Intendiamoci, come già accennato le missioni possono, sempre e comunque, essere affrontate in singolo, modificando in maniera sensibile tanto l’approccio quanto le più elementari regole di ingaggio del nemico. In questi momenti, The Division 2 cambia, nuovamente, aspetto, mostrando uno strato ancor più “hardcore”. Approcciarsi, per scelta o necessità, al gioco solitario vuol dire accettare una notevole impennata della difficoltà, oltre che una “dilazione” della progressione, rallentata dalla minore potenza di fuoco e da una maggiore vulnerabilità. Eppure, metabolizzata la nuova situazione, anche in questi casi il gioco non si “rompe”, mai e poi mai, acquistando, invece, nuovi pregi. Nuovi valori. Lo fa quando ci costringe a studiare in maniera meticolosa lo scenario e le coperture, pena una morte precoce che, senza soccorso amico, costringerà a ripetere ampie e lunghe sezioni. Lo fa, ancor di più, quando ci si “perde” tra gli scorci della devastazione, scoprendo monumenti e punti di interesse, oltre che segreti forieri di munizioni, attrezzatura e abbigliamento migliore di quello sfoggiato. Ad ogni modo, qualunque sia il proprio e personale mood, The Division 2 ricompensa sempre e adeguatamente il giocatore. Stimolato, e non frustrato, a scoprire cosa si nasconde dietro a quel vicoletto raggiunto, perché no, inseguendo un cervo, proprio come noi, spaventato e confuso, piuttosto che l’intuizione di un compagno di squadra particolarmente avventuroso.
Battaglie senza esclusione di colpi.
The Division 2: la Raccolta
Assimilati i ritmi e il gameplay, non è certo un segreto che l’impasto ludico trovi sapore e gusto da quel looting incessante che, solo tre anni fa, aveva fatto storcere il naso ad una buona fetta del pubblico. La “raccolta” di nuove armi e nuovo equipaggiamento, rivendicando la propria importanza all’interno dell’economia di gioco, risulta più equilibrata e meno invadente. Salire di livello, ancora una volta, vuol dire acquisire armi più potenti, mod più incisive, attrezzatura più resistente. Vuol dire, anche, imparare a gestire al meglio il proprio inventario, riciclando le risorse per nuovi progetti o, semplicemente, avamposti e rifugi più accoglienti. Ancora una volta, insomma, gli aspetti ruolistici giocano un ruolo fondamentale negli equilibri dell’esperienza, favorendo, tra una missione e l’altra, momenti di più o meno lunga riflessione da passare scorrendo le sezioni del menu di gioco. Al netto delle modifiche estetiche, piuttosto limitate e quasi monocromatiche senza mettere mano al portafoglio, il senso di progressione passa, pure, da un’attenta lettura delle statistiche di ogni oggetto raccolto, ma anche al ricorso di quei NPC che, ognuno per la propria specializzazione, popolano rifugi e basi operative. Peccato, allora, che la storia, quella chiamata a dare un perché alle nostre azioni, non sia per nulla incisiva. Intendiamoci, la sensazione del “dramma” è sempre percepibile grazie al lavoro, encomiabile, degli artisti. Eppure, manca un vero “cattivo”. Manca un vero “amico”. Mancano, insomma, quei riferimenti narrativi e caratteriali che avrebbero innalzato la qualità di una sceneggiatura troppo scolastica e didascalia, affidato più alla raccolta di nastri olografici e messaggi del recente passato che alle “chiacchierate” con i personaggi secondari. Un problema, non certo l’unico, che The Division 2 condivide, per altro, con tutti gli esponenti del genere, quasi si tratti, ormai, di una peculiarità che l’industria, per un motivo o per un altro, ha voluto assegnare “per forza” a questo tipo di produzioni.
Agenti nei rifugi.
The Division 2: gli Ostacoli
Di criticità, ovviamente, ve ne sono altre. L’obbligo, pena l’impossibilità anche solo di superare il menu principale, di essere costantemente connessi ai server di Ubisoft nasconde in seno una serie di problematiche che, in un modo o in un altro, meritano di essere risolte. Specie su PS4, versione testata su entrambi gli hardware di casa Sony con risultati non sempre soddisfacenti. Andando per ordine, l’always online” richiede al giocatori, ogni giocatore, di ritagliarsi, all’interno della giornata, momenti ben precisi da dedicare al gioco, che, come è ovvio, non “salva” la posizione e neppure una missione in corso, mantenendo, una volta spenta la console, gli oggetti raccolti e l’esperienza raggiunta. Rifare una missione, sia ben chiaro, richiede, quindi, una “ripartenza” quasi totale, alle volte dettata dalle esigenze dell’utente, altre, invece, dalla stabilità degli stessi server. Purtroppo, in questa prima settimana di gioco, non sono mancate le disconnessioni improvvise o le previste, ma non di meno fastidiose, manutenzioni che, di fatto, hanno reso la progressione nel mondo di The Division 2 particolarmente faticosa, costringendoci spesso a “ripulire” zone che, in verità, avevamo già affrontato con successo. Inoltre, abbiamo rilevato alcune “falle” nel sistema che regola la richiesta di “soccorso” che, anche a missione iniziata, può essere inoltrata in qualsiasi momento senza, però, ottenere grande successo. Ferma restando la tipologia di gioco, una maggiore stabilità della connessione dovrà essere un obiettivo primario per il team chiamato, pure, a rimpolpare, sin dalle prossime settimane e per il prossimo anno, i contenuti di un gioco che, al lancio, si presenta comunque in splendida forma. Ancora una volta, l’esperienza acquisita dagli sviluppatori nel supporto al primo capitolo ha evidentemente giovato alla nuova produzione che, finita la campagna, porta l’esperienza legata al multiplayer e alla Dark Zone su un nuovo livello. Superato, dopo circa 35 ore di gioco, il caos prodotto dai gruppi nemici di Iene, True Sons e Reietti, il gioco ci mette di fronte ad una nuova fazione e, pure, a nuove sfide. Se i Black Tusk, come nemici, si rivelano forieri di nuovi stimoli, valga, ancor di più, il discorso precedentemente fatto per il looting. La varietà delle situazioni mescolata alla potenza di fuoco” dei nuovi nemici apre così ad una nuova fase di sviluppo del personaggio, per un’avventura tutta nuova che si snoda in maniera piuttosto articolata. A rinvigorire un monte ore di gioco che, quindi, si presenta piuttosto sontuoso, inoltre, non ci sono solo le politiche post lancio “cristalline” già snocciolate da Ubisoft, ma anche un’intelligenza artificiale che, francamente, ci ha sorpreso in positivo. I nemici, con i dovuti distinguo, si muovono in maniera coordinata, vantando un’inedita personalizzazione caratteriale e strategica che, ancora, richiede sempre attenzione e pianificazione, producendo situazioni, ed esiti, sempre diversi. Purtroppo, la tipologia di missioni, siano quelle principali o, piuttosto, quelle a “supporto” di trama e sviluppo, faticano ad emergere, loro sì, per varietà. Gli incarichi, alla fine, tendono ad assomigliarsi un po’ tutti perché, a dispetto delle richieste da soddisfare, si tratterà, sempre e comunque, di fronteggiare ed abbattere orde di nemici, presenti sempre in gran numero e sempre guidati da un “leader” più corazzato degli altri. Per quanto meno corazzato, sappiatelo, rispetto ad un qualsiasi “boss” del passato. Merito, pure, del nuovo feeling in dote alle armi. Tra fucili, pistole e canne mozzate, al di là delle statistiche, le differenziazioni sono tangibili anche se la sensazione, al momento, è che manchi qualcosa in termini di bilanciamento.
Esteticamente accattivante.
The Division 2: la Resilienza
Tra abilità, mod e gadget da sbloccare, insomma, il ludogodimento è tanto. Anche al netto dei difetti, magari destinati ad un’opportuna limatura già a stretto giro. Ne avrà bisognò anche la grafica che, tanto su Ps4 vanilla quanto su Pro, presenta un fastidioso fenomeno di late loading cui sono soggette alcune, troppe texture. Chiariamo: il colpo d’occhio, con le opportune differenze in dote ai diversi hardware, è sontuoso. Pur perdendo, sotto l’aspetto iconico, qualcosa rispetto a New York, Washington gode di un dettaglio sicuramente maggiore, con una cura per il particolare capace di ringalluzzire persino gli interni. Dove la nuova incarnazione del SnowDrop Engine mostra i muscoli è, però, nella gestione delle routine che regolano l’illuminazione. L’arrivo della primavera sull’ East Coast dopo il lungo inverno ha giovato in maniera complessiva su qualsiasi elemento. Sia strutturale, con palazzi e monumenti che imponenti si stagliano sullo sfondo ricchi di dettagli, sia artistico, con un uso dei colori e degli shader evidentemente studiato a tavolino. In questo contesto, appare francamente inspiegabile come il mancato caricamento di alcune texture, parliamo di un ritardo che supera anche i 5 secondi da distanza ravvicinata, sia sfuggito agli sviluppatori. Si tratta di un “glitch” particolarmente fastidioso ed evidente che, specie durante la fasi di esplorazione o “turismo virtuale”, rompe un po’ la magia. Si tratta di un fenomeno presente, almeno in questa misura, solo su hardware Sony, per scomparire in maniera parziale o totale su Xbox One e PC dove, per altro, il “peso” del download non supera i 50 gb per sfiorare, invece, il tera su PS4. Ad ogni modo, allontanando dubbi su qualche inciampo nello sviluppo, sicuramente risolvibile, il comparto tecnico è, nel complesso, promosso a pieni voti. Anche l’audio, pur non ammaliando nelle musiche, spicca sulle altre produzioni per la qualità degli effetti, del missaggio e del doppiaggio. Indice ultimo, in conclusione, di una produzione mastodontica nella qualità e nei contenuti.
The Division 2 è, probabilmente, il miglior The Division che i fan e, in generale, il pubblico potessero aspettarsi. I ragazzi di Massive Entertainment sono intervenuti praticamente su ogni criticità che, nell’ultimo triennio, aveva interessato il supporto, continuo e costante, al primo capitolo. Quel che resta, oggi, è stato infuso in un titolo divertente, lungo, profondo. Una produzione Tripla A praticamente priva di difetti oggettivi che, se mai, lascia spazio ad alcune perplessità capaci, nell’ultimo periodo, di intaccare la reputazione generale di questi enormi mondi condivisi. Tra tutti gli esponenti del genere, però, The Division 2, inteso come Game As Service, sembrerebbe avere qualcosa in più. Un merito frutto non certo del caso, quanto dell’impegno riversato dal team di sviluppo nella sua creatura, mai abbandonata. Nulla di particolarmente sorprendente, immaginiamo, per chi, oltre a raccontarla, ha dimostrato di aver imparato la lezione, resistendo all’urto e reagendo. Ci piace immaginare, insomma, che la luce di The Division 2 sia destinata a restare accesa ancora per molto.