Mentre l’attesa per Death Stranding continua a logorarci nella mente e nel corpo, andiamo alla scoperta di uno dei più grandi capolavori della storia del gaming, un classico capace di ridefinire un genere e traghettare l’intera industria verso una nuova consapevolezza, influenzando tutti i titoli che sarebbero venuti dopo: Metal Gear Solid, una saga che ha cambiato per sempre la storia dei videogiochi e ha definito Hideo Kojima come uomo e come autore. Esatto: giocare i Metal Gear prima di Death Stranding è praticamente obbligatorio per poter comprendere uno dei più grandi game designer della storia a tutto tondo. Kojima, del resto, non ha mai fatto mistero di mettere tantissimo di sé nelle sue opere. E quella di Metal Gear Solid è una storia potente e struggente, che ci mostra la guerra in tutto il suo orrore, dandoci uno spaccato lucidissimo della dimensione umana e raccontandoci moltissimo del suo geniale creatore. Buona lettura.
Inquadrare Metal Gear Solid in qualunque categoria che non risponda al nome di “capolavoro” sarebbe un errore madornale per qualunque studioso o critico degno di nota. Messo in chiaro questo presupposto, possiamo quindi passare a ricordare non solo che cosa ha reso così grande Metal Gear Solid, ma soprattutto chi. Metal Gear Solid è il parto del geniale game designer Hideo Kojima, che riversò nel gioco tutta la ricerca artistica che aveva compiuto fino ad allora con giochi come Policenauts e naturalmente con l’antenato bidimensionale di Solid, ossia Metal Gear. Quello che differenzia MGS da tutti gli altri giochi usciti prima di lui è la sua natura iconoclasta e postmoderna.
Kojima, fin da tempi non sospetti, ha sempre usato il videogioco non come un fine, ma come uno strumento, facendo compiere al giocatore determinate azioni tramite il gameplay, ma condannandole tramite lo storytelling. Se i videogiochi hanno provato fin dalla loro nascita un fascino immenso per sangue e violenza, in Metal Gear Solid questa inclinazione viene distrutta, smitizzata e decostruita. A comunicare questo messaggio è la tipologia di gioco stessa, ossia lo stealth, che permette al giocatore di muoversi in furtività, invece di massacrare i nemici, un’opzione comunque presente e valida. Perché fondamentalmente la storia di Metal Gear Solid è una storia di disadattati, come Solid Snake, un soldato la cui ragion d’essere inizia e finisce nel momento stesso in cui si prospetta l’arrivo di una guerra. Come vive un soldato al di fuori di un campo di battaglia? Come può un guerriero, nato e addestrato per un solo scopo, trovare un significato in un’esistenza vissuta in tempo di pace? Queste sono le domande che assillano l’Hideo Kojima autore e, di conseguenza, la persona che si trova dall’altra parte dello schermo.
La creatura di Kojima-san
Se Metal Gear Solid viene ricordato ancora oggi come uno dei più grandi giochi mai realizzati, è principalmente in virtù dei suoi personaggi, sia dei protagonisti che degli antagonisti. Con MGS e Kojima, il videogioco diventava finalmente adulto, e non soltanto per la crudezza delle scene (c’è persino una sequenza di tortura interattiva!), ma anche e soprattutto per la profondità con cui venivano tratteggiati i caratteri dei personaggi. Tutto questo nasce dalla particolare formazione di Hideo Kojima, un uomo giapponese con un occhio sempre puntato all’Occidente: famosa è la sua citazione su Twitter, “Il 70% del mio corpo è composto da film”, dove con film ci si riferisce principalmente alle opere europee e americane, di cui spesso l’autore canta le lodi sul suo profilo personale. Tenete a mente questo dato, perché è utile per capire tutta la natura della sua serie. Sì, perché se da un lato abbiamo un contesto action ispirato a film come The Rock, dall’altra invece la sensibilità e la tendenza all’introspezione sono tipicamente giapponesi.
Uno dei più grandi pregi di Kojima è la sua capacità di fuggire dalla mentalità insulare tipica dei designer del Sol Levante, aprendosi al resto del mondo e creando giochi in grado di risuonare con un pubblico internazionale. Allo stesso tempo, il retaggio culturale del game designer si traduce in storie bizzarre, piene di elementi stranianti e surreali, che tuttavia acquisiscono una coerenza e un senso profondo nel grande schema della serie. Il grande merito di Kojima è anche quello di giocare con le paure del mondo occidentale e orientale, collegando il suo gioco a eventi storici reali, intrecciando invenzione narrativa e realtà. In MGS rivive lo spauracchio dell’era atomica, di Hiroshima e di Chernobyl, con molti accenni a problemi reali come lo stoccaggio delle scorie, e innumerevoli riferimenti a una realtà che opera dietro le ombre, anticipando di molti anni le follie paranoiche che sfrecciano attraverso Internet. Non dimentichiamo inoltre che il mondo era reduce da pochi anni dalla Guerra del Golfo, e dalla guerra in Kosovo, e le tensioni sullo scacchiere militare hanno influito non poco sull’atmosfera grigia, e talvolta priva di speranza, della prima avventura “solida” di Snake.
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La genesi
E pensare che Metal Gear Solid sarebbe dovuto essere un gioco del… 3DO! In realtà le cose andarono molto diversamente, e Hideo Kojima ricorda ancora oggi come allora la sua volontà “di creare il miglior gioco per PlayStation”; ammesso che non sia il migliore, MGS è sicuramente il più influente. MGS fu sicuramente un “dream project” per Kojima, che aveva la possibilità di trasformare in 3D il mondo che era riuscito ad abbozzare su MSX, con uno scarto tecnologico che aveva dello sconvolgente. Questa natura rivoluzionaria del gioco viene simboleggiata dal titolo stesso, Solid, che sta a indicare proprio la “solidità” dettata dalla grafica poligonale, contrapposta alla vetusta pixel art del primo Metal Gear.
Quello che distingue MGS da tutti gli altri giochi dell’epoca è la sua ricerca iperrealistica, che stride in maniera netta con la componente soprannaturale, pur presente in maniera sostanziale. Hideo Kojima all’epoca dichiarò che, se il gioco non fosse stato credibile, non avrebbe avuto proprio senso svilupparlo. In effetti le visioni più strampalate del gioco, tra cui lo psichico con la maschera a gas Psycho Mantis, non risultano troppo eccentriche proprio perché calate all’interno di un contesto coerente. Un risultato possibile grazie all’ampissima ricerca militare svolta sul campo, con la collaborazione della squadra SWAT di Huntington Beach, che mostrò al team di sviluppo di Konami il funzionamento di armi e veicoli. È per questo motivo che all’interno dei giochi troviamo armi con il loro vero nome, con un funzionamento del tutto analogo a quello delle loro controparti reali. Lo storico consulente bellico della serie, Motosada Mori, si documentò per le armi del gioco all’interno di basi dell’esercito americano, come il centro addestramento di Fort Irwin nel deserto del Mojave, e frequentò per lungo tempo i poligoni di tiro americani.
Il livello di dettaglio del gioco ha del maniacale, e si estende persino ad aspetti che non vengono immediatamente percepiti dal giocatore, come ad esempio le scrivanie posizionate nel mondo del gioco, che per sembrare più realistiche vennero modellate individualmente, invece che in un unico blocco. Se da una parte abbiamo quindi una ricerca estremamente rigorosa e scientifica, dall’altra parte abbiamo una direzione artistica assolutamente originale ed estrosa, frutto del brillante artista Yoji Shinkawa, che si occupò di curare tanto il design dei personaggi tanto quello dei mecha presenti all’interno del gioco. Shinkawa, in maniera simile a Yoshitaka Amano di Final Fantasy, ha uno stile molto particolare, basato su pennellate vibranti e chiaroscuri, difficile da tradurre immediatamente in un videogioco. Eppure, è proprio questa unione di sregolatezza e precisione che ha prodotto il look e l’atmosfera così caratteristiche di MGS. A svettare in particolare è il character design che, come nel primo Metal Gear (ma in maniera meno sfacciata) si rifaceva a icone delle pellicole hollwoodiane. Solid Snake, nella fattispecie, doveva essere una commistione tra il fisico di Jean Claude Van Damme e il volto di Christopher Walken, due fenotipi completamente opposti ma che generarono un protagonista memorabile. In realtà nel gioco in sé questi connotati sono difficili da scorgere, dato che le limitate potenzialità grafiche della prima PlayStation non erano in grado di gestire il volto del protagonista, di cui in effetti non è possibile vedere gli occhi. Erano, del resto, tempi in cui gli artwork contenuti nel manuale non erano solo degli elementi decorativi, ma contribuivano in maniera determinante a plasmare l’immaginario che il giocatore si figurava nella testa. Anche i nemici del gioco erano modellati su protagonisti della cinematografia; il più iconico è senza dubbio il sadico pistolero Revolver Ocelot, le cui fattezze sono basate su Lee Van Cleef, storico attore di film western, di cui Hideo Kojima è un grande appassionato. A livello di caratterizzazione, Ocelot è uno dei personaggi più affascinanti dell’intera saga, e la sua natura di burattinaio mutaforma lo rende cruciale per una comprensione soddisfacente dell’ “epica” kojimiana.
Se ancora oggi parliamo di MGS è anche per via del suo sensazionale sound design, sia a livello di colonna sonora che di doppiaggio. Se Kojima voleva trovare il punto di contatto tra l’estetica cinematografica e quella videoludica, aveva anche bisogno di musiche che sottolineassero l’atmosfera dannata e crepuscolare dell’epopea di Snake. Anche se l’idea di una colonna sonora dinamica sarebbe stata fattibile solo nel secondo episodio di Solid, le musiche si adattano comunque alle situazioni di gioco, sottolineando gli avvenimenti, come per esempio quando Snake viene scoperto e le guardie si lanciano alla sua ricerca.
Ma MGS è una perla anche per quanto riguarda il game design, in grado di offrire un gameplay furtivo stratificato e incredibilmente complesso. L’idea di fondo è che non esiste un’unica soluzione per superare i livelli, ma il giocatore ha tanti strumenti a sua disposizione per arrivare a un unico goal, ossia superare la zona senza essere visto dai nemici. Aiuta in questo senso l’intelligenza artificiale dei nemici, che sono molto attenti a ogni rumore prodotto dal giocatore: per esempio, camminare su di un pavimento scricchiolante li fa immediatamente insospettire. Anche se oggi i pattern di comportamento dei nemici potrebbero far sorridere i giocatori più smaliziati, all’epoca dell’uscita del gioco l’illusione funzionava benissimo, e dava la sensazione di trovarsi di fronte a nemici altamente intelligenti, con un gameplay sempre teso che teneva il giocatore costantemente sulle spine. Ma naturalmente non si può parlare di MGS senza citare la famigerata boss battle di Psycho Mantis, in cui Kojima dimostra non soltanto la sua abilità di narratore, ma anche la sua capacità di abbattere con forza dirompente la “quarta parete”. Mantis, faccia a faccia con Snake, si prodiga in una manifestazione dei suoi straordinari poteri, annunciando che è in grado di leggere nella mente del giocatore e di spostare gli oggetti con il pensiero. Per dimostrarlo, Psycho Mantis analizza le azioni compiute fino a quel momento da Snake, arriva a leggere i salvataggi dei giochi ospitati sulla Memory Card, fino al passaggio più sconvolgente dell’intero gioco: il telepate chiede infatti di appoggiare il controller sul movimento e questo, grazie alla vibrazione del Dual Shock attivata dal gioco, si muove proprio come se fosse spostato da un incontenibile potere psichico.
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Non solo, durante la boss battle è possibile cambiare lo slot del controller: in questo modo, Psycho Mantis non può leggerci nella mente, impedendogli di manipolare i nostri movimenti e permettendoci di sconfiggerlo con molta più rapidità. È in queste scene che si vede tutto il genio di Hideo Kojima, nonché la sua capacità di pensare in maniera laterale e sfruttare il linguaggio metanarrativo del videogioco, facendosi beffe dell’interattività. Questa sua capacità diventerà il marchio di fabbrica dei giochi prodotti da Kojima, che lo consacrano come uno dei più grandi game designer attualmente viventi. La scena è interessante anche perché tradisce un umorismo tutto particolare dell’autore giapponese, che rispecchia in effetti quello che è un tipico atteggiamento dei giapponesi, capaci di momenti di malinconia travolgenti, ma allo stesso tempo pronti a sdrammatizzare con un umorismo del tutto peculiare. I momenti bizzarri sono una cifra stilistica tutta di Kojima, e diventeranno delle gag ricorrenti nell’intera saga che, tra il serio e il faceto saranno riproposti anche nei successivi episodi, suggerendo una sorta di “ciclo dell’eterno ritorno” che si ripropone attraverso le epoche, come se i personaggi fossero sempre condannati a ripetere le stesse azioni. Kojima, da buon giapponese, è molto bravo a sdrammatizzare, e sembra avere una certa predilezione per il “toilet humour”: l’aiutante di Snake, Otacon, al primo incontro con il cyborg Gray Fox si urina addosso, mentre in cella Snake ha a che fare con un ridicolo soldato con problemi di dissenteria: si tratta di Johnny Sasaki, un personaggio che avrà un ruolo cruciale in MGS 4: Guns of the Patriots, dove saranno spiegati anche i suoi disturbi intestinali… ma questa è un’altra storia. La facilità e l’agilità con cui il gioco passa da un registro narrativo a un altro è anche uno dei suoi aspetti più riconoscibili.
Vale la pena spendere qualche parola sulla localizzazione del gioco, che per il primo episodio venne affidata a Jeremy Blaustein. Nonostante la traduzione inglese permise al gioco di risuonare anche presso il pubblico occidentale, le sue licenze artistiche non furono apprezzate da Kojima. Blaustein racconta come a lui furono forniti ben pochi elementi per tradurre il gioco, principalmente un faldone contenente gli artwork di Shinkawa, motivo per cui dovette tappare molte delle falle. Non solo, alcune scene originali mal si sposavano con la sensibilità occidentale, e Blaustein si prese l’incarico di rendere il gioco potabile anche per il pubblico internazionale. In retrospettiva, le libertà che si prese Blaustein avranno anche indispettito Kojima, ma un albero si vede anche dai suoi frutti, e se il gioco ebbe così successo anche in America, probabilmente parte del merito va anche il traduttore, il cui contratto tuttavia non venne rinnovato per i successivi episodi della saga.
Parenti serpenti
Districarsi nelle trame di Hideo Kojima è sempre difficile, ma la vicenda di base è piuttosto semplice da descrivere: un gruppo di terroristi, capitanati dal malvagio Liquid Snake, si è impossessata di una base in Alaska, Shadow Moses, e minaccia di sferrare un attacco atomico. L’unica persona in grado di fermarli è Solid Snake, un soldato scelto dell’unità FOXHOUND che in passato aveva già ucciso suo padre in una missione in Africa. Prima di arrivare allo scontro fratricida, Snake incontra sul suo cammino diversi personaggi, ognuno con i suoi tormenti e le sue motivazioni, la maggior parte dei quali incontra la sua fine proprio per mano di Snake. L’assurdità della guerra è un tema molto caro a Kojima, e il risultato è un gioco che non ha timori di sprofondare nell’introspezione e nell’intimismo, quasi a volerci dire che la persona che si nasconde dall’altra parte della cortina è un essere umano come noi. Kojima, e Snake, devono tuttavia fare i conti con dei ruoli imposti dai videogiochi, che dettano la necessaria uccisione di un “boss” da parte del protagonista. La guerra, in effetti, è molto simile a un videogioco, con le sue regole assurde e l’impossibilità di comunicare con il nemico che ci troviamo davanti.
La grandezza di MGS risiede nel fatto che non si trattava di un semplice videogioco, ma di un’opera con grandi ambizioni, che tentava di dire qualcosa di significativo, laddove la maggior parte degli altri videogiochi non aveva ancora esplorato le possibilità espressive concesse dalla propria interattività. Sebbene gran parte del senso di MGS risieda proprio nelle sue parti giocabili, la grandezza dell’opera si nasconde nele tanto criticate sequenze non interattive, ossia cutscene e conversazioni al codec. È in questi frangenti che si annida il passato di Hideo Kojima, che non a caso aveva lavorato su delle visual novel prima di approcciare MGS. Le cutscene sono uno degli elementi che più di tutti elevò MGS sopra la massa, principalmente per la loro consapevolezza registica. Prima di allora molti giochi vantavano di essere “come un film”, ma fu solo Metal Gear Solid a operare la prima sintesi di linguaggio tra i due media. Non era una questione di pura grafica, ma di inquadrature, fotografia e naturalmente sceneggiatura, che davano la sensazione di star assistendo a una vicenda come quelle che si potevano vivere sul grande schermo. “Il 70% del mio corpo è composto di film”, ricordate? Kojima saccheggia consapevolmente l’immaginario hollywoodiano, persino autori molto lontani dalla sensibilità orientale, come potrebbe essere un Michael Bay, con tantissimi accenni a Fuga da New York di John Carpenter o ad altri film di guerra arcinoti come Rambo. Ma il furto artistico di Kojima è in realtà un Cavallo di Troia con cui trasmettere al giocatore una morale molto vicino al buddismo e in genere alla filosofia orientale. Il simbolo di questa sintesi di culture è ben rappresentato da Gray Fox, un ninja robot dalla storia, indovinate un po’, assai tormentata.
Nella grande epopea di Metal Gear Solid è davvero difficile distinguere il bene dal male, poiché ogni personaggio ha le sue spinte emotive che lo inducono a comportarsi in un determinato modo. In realtà, e questo sarà più chiaro andando avanti nella saga, tutte le azioni di eroi e “villain” vengono definite da un contesto molto più ampio, dove la giustizia assume sfumature sempre più ostiche da decifrare. Il concetto di nemico è assai sfuggente in MGS, dettato principalmente dalle condizioni e dalle circostanze piuttosto che da un concetto di giustizia assoluto. Questo è particolarmente vero quando si va a considerare il rapporto tra il protagonista Solid Snake e l’antagonista Liquid Snake, entrambi faccia della stessa medaglia, in quanto cloni originati da Big Boss, il grande guerriero il cui spettro aleggia su tutta la saga, motore di tutti gli avvenimenti dal primo all’ultimo episodio. Anticipando di qualche anno la mappatura del genoma umano, Kojima offre una riflessione sulla nostra vera natura, interrogandoci sulla possibilità per il DNA di influenzare veramente chi siamo. “The brother of light and the brother of darkness”, recitava il trailer di The Twin Snakes, il remaster del gioco per GameCube, e tuttavia la frase riflette solo in parte la complessità del rapporto tra Liquid e Solid. Districarsi nel labirinto morale di Hideo Kojima è tutt’altro che semplice, principalmente perché Liquid sta rispondendo, almeno nella sua mente corrotta, alla chiamata del suo DNA, con la volontà di onorare il lascito di Big Boss.
E d’altro canto Snake non è un eroe senza macchia: egli infatti si è sporcato le mani con il sangue del padre, come rivela in una memorabile conversazione al codec, la radiotrasmittente che viene usata da Kojima per espandere la narrazione delle cutscene. Queste sequenze sono volutamente lunghissime (e spesso oggetto di critiche da parte di chi contesta le scelte di Kojima), ed è al loro interno che si nascondono alcuni dei migliori momenti di caratterizzazione della saga. Ma allora quale può essere il punto d’appiglio in questa foresta di simboli e ossessioni? È semplice: l’amore. Difficile immaginare, per chi non ha giocato l’opera all’epoca della sua uscita, quanto potesse essere sconvolgente il messaggio di Hideo Kojima: un gioco di guerra che in realtà parla di amore, riuscite a immaginarlo? L’amore assume tantissime forme in Metal Gear Solid, ma la sua rappresentazione più commovente è sicuramente nella scena della morte della bella e seducente Sniper Wolf, di cui Otacon è perdutamente innamorato. È Snake a uccidere la cecchina, che pronuncia le sue ultime parole sdraiata nella neve, in quella che è una delle scene più struggenti della storia del videogioco.
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MGS portava nei videogiochi tematiche come l’amore, la sofferenza per la perdita di qualcuno di caro, il rimpianto… insomma, tutto quello che ci rende umani. E alla fine è questo che è Metal Gear Solid, una grande celebrazione dell’uomo e della donna, capaci di grandi nefandezze, ma la cui vita è caratterizzata dalla ricerca della verità, dalla possibilità di dare un senso a quello che vivono, e in ultima analisi di un posto nell’universo. Non c’è personaggio della serie che non si sia posto simili dilemmi, ed è questo il motivo che rende così grande questa serie. In che modo Hideo Kojima potrà portare avanti tutte queste tematiche in Death Stranding, ricollegandolo alle sue precedenti opere? Questo è tutto da vedere (e ci sarà spazio per parlarne, anche su queste pagine), ma di una cosa siamo certi: nei suoi videogiochi, il geniale autore giapponese non rinnegherà mai sé stesso, il suo vissuto personale e come game designer in nome della mercificazione delle sue opere.