Nell’accingersi a scrivere la recensione di Death Stranding, la redazione di GamesVillage si è ritrovata di fronte a una dinamica particolare, ovvero un disaccordo, non profondo ma significativo, tra i suoi vertici. Pur appartenendo tutti noi a una scuola di pensiero con radici comuni, l’interpretazione critica che la redazione ha avuto dell’ultima opera di Hideo Kojima diverge in diversi punti e sfumature. Queste divergenze, non riassumibili brevemente in una banale dicotomia ma parte di un generale ermetismo dell’opera, per fortuna sono state brillantemente esposte nelle note a margine del Direttore Marco Accordi Rickards, la cui visione è imprescindibile e complementare rispetto a quanto sarà enunciato in sede di recensione.
I’ll Keep Coming
A beneficio del lettore che è tuttora legittimamente ignaro di cosa sia Death Stranding, forniremo un breve riassunto: si tratta di un gioco d’azione open world, basato sulla necessità di muoversi da un punto all’altro di una mappa post-apocalittica (se di Apocalisse vogliamo parlare). L’obiettivo del protagonista, Sam Porter Bridges, è trasportare dei pacchi di diversa entità e contenuto, da un punto A a un punto B; la difficoltà di quella che di fatto è una fetch quest è chiaramente rappresentata da tutti gli ostacoli incontrabili nel viaggio fra i due punti, naturalistici, umani e sovrumani, mentre la ricompensa è spesso e volentieri rappresentata dagli scampoli narrativi che vengono elargiti ogni volta che si completa una missione, che si collegano tra di loro in archi temporali chiosati da intermezzi non interattivi di notevole lunghezza. Chiaramente, trattandosi di un gioco dalla forte impronta autoriale, nessuno di questi estratti cinematografici è mai banale o raffazzonato nella regia e nella sceneggiatura, collocandosi chiaramente nella cornice più ampia di un racconto ambizioso e potente, che poi rappresenta inevitabilmente il principale punto d’interesse per l’appassionato delle opere di Hideo Kojima. Le missioni fanno parte a loro volta di un sistema complesso, volto a creare un ciclo virtuoso, un game loop se vogliamo, dove ogni azione contribuisce a un mosaico più ampio, sostenendo la motivazione del giocatore e alimentando la genuina e primordiale curiosità del sapere “che cosa succederà”. Death Stranding è stato accompagnato fin dall’inizio del suo ciclo di vita da un manifesto antropologico scritto dallo stesso Kojima-san (raggiungibile a questo indirizzo), in cui veniva indicata la necessità di creare un gioco non sui bastoni, simbolo della divisione tra umani fin dagli albori della civiltà, bensì sui fili, le connessioni. Gli “strand”, come vengono chiamati nel gioco.
Kojima ha da sempre giocato con simboli filosofici importanti, ponendosi come uno tra i pochi autori Tripla A capaci di tirare in ballo nomi di un certo peso, citando per esempio il nome del filosofo rumeno Emil Cioran all’interno dei suoi trailer, solo per fare uno dei possibili, innumerevoli esempi. L’amore di Kojima nei confronti della cultura alta non è un mistero, amore per giunta ricambiato, almeno in Italia: memorabili i video commenti del critico cinematografico Enrico Ghezzi su Rai 3, nel corso di Fuori Orario (oggi le chiameremmo “Blind Run”, forse?). Questa descrizione, volutamente così fredda, chiaramente non rende troppa giustizia alla genuina emozione che si prova di fronte alla grandezza di certi colpi di scena, o ad atmosfere e scelte di direzione artistica che segnano un nettissimo distacco di fronte a quanto realizzato da qualunque altro autore di videogiochi, che ci danno già la possibilità di definire a tutti gli effetti Death Stranding un gioco con una fortissima impronta registica, se non in assoluto l’opera più identitaria e personale di Hideo Kojima. Al tempo stesso, parlare in termini oggettivi di Death Stranding permette di guardare sotto il cilindro e scoprire dove si nasconde la grandezza del gioco. Un indizio ve lo diamo già: non è nell’azione che dovete cercare, né tanto meno nelle opzioni dell’interfaccia, tranquillamente riassumibili da un manuale d’istruzioni, sebbene il gameplay faccia parte in maniera sostanziale dell’equazione di Death Stranding. Lo scorso agosto Hideo Kojima del resto si definiva parte di “un’industria di servizi con aspirazioni artistiche”, parole dichiaratamente limitate alla sua esperienza ma che descrivono perfettamente la sua visione di come dovrebbe essere creato un videogioco, e che in un senso più ampio raccontano un metodo di lavoro creativo fondato sull’impegno, sulla collettività del lavoro e sulla profondità intellettuale, piuttosto che sul glamour hollywoodiano della parola “Maestro”, etichetta che viene talora attribuita a Kojima, la cui legittimità non è ovviamente oggetto di questa disamina e dev’essere piuttosto demandata ai posteri. Per Kojima quindi, un po’ come l’indimenticabile Joker di Christopher Nolan, si tratta solo di mandare un messaggio, avendo a sua disposizione gli strumenti del game design, solo apparentemente limitati, e il linguaggio filmico con cui ha avuto modo di sperimentare dai tempi del primo Metal Gear.
Da questa consapevolezza nasce Death Stranding, che ovviamente non punta a essere groundbreaking come un Super Mario Galaxy, né alla perfezione formale di The Legend of Zelda: Breath of the Wild, ma ambisce piuttosto a rivoluzionare lo storytelling interattivo, collocandosi non tanto quindi nel solco di Shigeru Miyamoto, ma avvicinandosi piuttosto alle sperimentazioni di David Cage, esplose in Heavy Rain e sublimate in Detroit: Become Human. Laddove Detroit: Become Human puntava tuttavia a un modello fortemente ibridato con la linearità cinematografica (linearità positiva che in effetti fa parte anche del DNA dell’opera di Kojima, come vedremo), Death Stranding sceglie piuttosto di trasmettere la tensione narrativa attraverso la singolarità del gameplay, ridefinendo e dando significato persino agli aspetti più banali che ci aspettiamo automaticamente di trovare in un videogioco, sfidando convenzioni che davamo per assodate, in primis il solo concetto di camminare in un ambiente 3D. Il termine “walking simulator”, a ben vedere, non gli si confà più di tanto, ma è interessante che sia stato usato per parlarne nei mesi precedenti all’uscita, poiché proprio la camminata di Sam ricopre un ruolo centrale nel design. Sam, e in particolare le sue gambe, interagiscono infatti con il terreno dell’open world in maniera organica, rendendo la deambulazione oltremodo difficoltosa, ma anche notevolmente interessante per il giocatore, creando un conflitto significativo attraverso una meccanica che chiunque altro avrebbe bollato come appena rilevante in fase di ricerca. Basterà quindi riassumere dicendo che Sam ha grandi difficoltà a camminare in questo territorio devastato e solitario, soprattutto perché il peso dei pacchi che deve caricarsi sulla schiena, attraverso un sistema di gestione dell’inventario tanto servizievole quanto importante, influisce in maniera drammatica sulla sua capacità di mantenere l’equilibrio durante le consegne; un trade-off basilare che crea tensione, ma anche un concetto familiare per qualunque essere vivente bipede abbia portato uno zaino nella vita, a cui eppure per qualche strano motivo Kojima è riuscito a dare una bellezza e un senso del tutto nuovo, che poi è sempre il primo indizio rivelatore di essere di fronte a un’opera d’arte.
Easy Way Out
A livello puramente di design tutto ciò ha innumerevoli implicazioni, ovviamente legate alla conformazione del territorio, ma anche agli agenti atmosferici; tali implicazioni, unite a una progressione costante che costruisce l’escalation, non saranno deliberatamente enumerate, perché se c’è un dogma che vige in GamesVillage è quello di non spoilerare (non troppo, almeno) le meccaniche. Sarà sufficiente dire che il concetto di costruire fili e connessioni, enunciato nel manifesto artistico iniziale, viene raccontato attraverso le meccaniche anche in maniera letterale, sotto forma di un gameplay asimmetrico in stile Dark Souls che permette ai giocatori di tutto il mondo di partecipare a uno sforzo collettivo online, disseminando l’open world di aiuti, talvolta provvidenziali. Scale, corde, picchetti e cartelli sono chiaramente uno dei tanti esempi che possono essere fatti di oggetti “social” che aiutano la progressione nelle fasi di esplorazione e azione; la componente building è presente e chiaramente esasperata andando avanti nell’avventura, tuttavia l’effetto Minecraft è stato fortunatamente scongiurato grazie al fatto che tutto ciò, semplicemente, sarà destinato a scomparire a causa dell’infausta Timefall, la pioggia maledetta che deteriora gli oggetti e avvizzisce i corpi. La presenza di una componente social manifesta contribuisce a comunicare il concept con più forza, ma rimane subalterna rispetto alla grandezza dello storytelling lineare ed emergente. L’insorgere di situazioni insolite nell’open world di Death Stranding è inevitabile, e frutto di quella capacità di costruire situazioni su più livelli nel gioco, ma ancor prima nella mente del giocatore.
Attraversare questa gigantesca ambientazione è un’esperienza mistica, zen, fortemente introspettiva, che si colloca chiaramente nella filosofia del gioco esperienziale alla Journey, avendo in forza tuttavia ben altra potenza espressiva e tecnologica. Scalare una montagna, in Death Stranding (o qualunque altro tipo di ostacolo naturale), è un’impresa che chiama a raccolta tutta la primordialità del nostro avatar, corroborando l’idea di un uomo comune lanciato in un contesto soprannaturale e fantascientifico. La sola possibilità di poter salire quella montagna, la fatica necessaria per attraversarla e giungere dall’altra parte, percepita chiaramente pad alla mano, non ha bisogno di troppe spiegazioni verbose o retropensieri: è appagante, come un hadouken di Ryu o un salto di Super Mario. Detto in modo ancora più semplice, è divertente, come uno yo-yo o lanciare un sasso in un lago; magia del game design. L’identificazione con Sam Bridges è assoluta, e questo chiaramente emerge bene a inizio gioco quando affrontiamo pienamente la sua fragilità, quando premendo i dorsali dobbiamo impedire a tutti i costi di far cadere un carico prezioso e danneggiarlo, o ancor peggio stressare B.B., pena sentirlo strepitare da dentro il microfono del DualShock. La fluidità dei controlli ovviamente rende impossibile ogni paragone con i controlli tank del primo Resident Evil, o con i personaggi di Heavy Rain, ma certamente si ha la sensazione in più di un momento, controllando Sam, di star guidando un’automobile su uno sterrato invece che un essere umano. Questa costante attenzione del giocatore nei confronti di Sam costruisce una connessione emotiva profonda che consente di empatizzare con lui come si farebbe con un attore di un film, interpretandolo tuttavia effettivamente tramite il pad; probabilmente va vista in quest’ottica anche la scelta degli attori umani come interpreti dei personaggi. Il gameplay comunque si sviluppa in modo tale che anche Sam avrà la sua buona dose di aiuti, in una parabola ascendente che ricorda quella di Samus in un qualunque Metroid, ma tutto questo viene condotto con un relativo minimalismo che fortunatamente impedisce l’insorgere, in senso assoluto, del power fantasy, fino alla fine.
Asylums for the Feeling
In fondo, Death Stranding è molto più giocattoloso di quanto i trailer non lascino a intendere e lo stesso Sam, nonostante il volto serioso di Norman Reedus, finisce per risultare buffo, persino goffo, nel suo tentativo di inerpicarsi per le lande del gioco. L’estetica slapstick di Sam, e di Snake e Raiden prima di lui, ci riporta sempre alla mente che questo è un videogioco, in cui si fanno cose da videogioco, come rinchiudersi in una scatola per passare inosservati di fronte ai nemici, e non c’è niente di male in questo. In questo senso, trovo a tratti che l’aver scelto un volto celebre come quello di Reedus, a scapito della possibilità di creare un’icona totalmente videoludica come un qualunque Master Chief, sia una nota stonata in una sinfonia dove invece tutto sembra suonare in perfetto accordo. Ricordare che questo è un videogioco rimane tuttavia un utile esercizio per evitare di attribuire a Death Stranding contesti a cui probabilmente (ma sarà il tempo a dirlo, è ovvio) è estraneo, come la letteratura alta o il cinema d’autore. Non si tratta di un giudizio di merito, per carità, ma piuttosto di una questione identitaria. Del resto il preconcetto intorno a Hideo Kojima nasce forse dall’avergli sempre attribuito un carisma da “autore del prossimo grande romanzo americano”, un’aura di santità che egli stesso non ha mai suggerito se non in maniera assolutamente autoironica e squisitamente in linea con la spensieratezza di molti maestri del game design giapponese. In un gioco di rimandi e citazioni autoreferenziali, a cui il creatore è avvezzo dai tempi della battaglia con Psycho Mantis in Metal Gear Solid, Sam Porter Bridges, il protagonista di Death Stranding, è in realtà un personaggio con un compito molto umile, ossia occuparsi delle spedizioni di beni di vario genere all’interno di un mondo atomizzato, devastato da eventi soprannaturali dettagliati nella mitologia del gioco. L’idea, qui chiaramente esasperata, che l’eroe di un videogioco sia un uomo comune con umili mansioni, è tutt’altro che una conquista recente, soprattutto per Kojima: non dimentichiamo che, in fondo, anche lo stesso Solid Snake si definiva tutt’altro che un eroe, più simile piuttosto a un mercenario che abbraccia cause idealistiche. Che non è poi tanto lontano dal dire di essere dei fornitori di servizi con ambizioni artistiche: autoreferenzialità, dicevamo.
Ci sono momenti in cui la tediosità di Death Stranding lo fa assomigliare a un lavoro, ma del resto si potrebbe dire lo stesso di Monster Hunter; rimanendo nell’ambito dell’entertainment giapponese, Hideaki Anno, conterraneo di Kojima, con Neon Genesis Evangelion ha comunque portato le ansie dell’adolescenza nel genere mecha eroico (e la burocrazia in Godzilla), dunque è facile identificare un pattern nella tendenza di molti creatori giapponesi a mescolare l’ordinario con l’assoluta straordinarietà. Allo stesso tempo, i videogiochi ci dimostrano continuamente che possiamo appassionarci alla crescita del raccolto, come in Harvest Moon, o addirittura alla guida del muletto, come in uno dei simulatori tedeschi più venduti su Steam. Tutto questo serve a dire che il design di Death Stranding potrebbe essere tranquillamente definito, usando espressioni della critica videoludica ormai obsolete, come ripetitivo, poco vario, addirittura pesante. La banalità delle azioni nasconde senza dubbio una sorprendente complessità, soprattutto narrativa, ma all’atto pratico il profondo lavoro concettuale fatto sul gioco non si traduce in puro e genuino divertimento. I puntini si collegano, le reti neurali si attivano, ma il divertimento non è per tutti e Death Stranding non ha certamente l’universalità di un Super Mario o di un The Legend of Zelda.
D’altronde Kojima si è confrontato con un materiale narrativo ancora più difficile rispetto a Metal Gear Solid, poiché sebbene Solid Snake fosse un soldato atipico, e l’intero gioco potesse essere affrontato in stealth senza uccidere nessuno, di fatto l’opera poteva essere venduta ed esperita come un semplice action. Per Death Stranding vale chiaramente lo stesso discorso, in virtù della “longevità”, del “combat system” e delle innumerevoli variazioni del gameplay. Tuttavia, se Metal Gear Solid controbatteva la tesi dell’azione violenta tramite la negazione (“non uccidere”), Death Stranding piuttosto gli contrappone un’antitesi ancora più forte: l’irrilevanza. Se tutto il mondo che vediamo intorno a noi è stato frammentato e annichilito dalle divisioni, se tutto il dolore che percepiamo deriva dall’odio e dalla cecità di pochi uomini, anche capisaldi del gaming come “il combat system” e la “boss fight”, seppur presenti e visivamente spettacolari, diventano pura e non necessaria burocrazia interattiva. Sebbene questa sia chiaramente una visione molto personale, reputo molto più interessanti le fasi iniziali rispetto a quelle avanzate, che, per ragioni ovvie, nascondono sorprese coerenti con la premessa iniziale del “delivery man”, ma al tempo stesso in parte la tradiscono sacrificandola sull’altare della progressione e del divertimento sopra le righe tipico del gaming, alla ricerca di gimmick sempre nuovi (ovviamente qui legati alla capacità del giocatore di spostarsi sulla mappa). Scelta comprensibile. La rincorsa del platino, del livello di difficoltà più estremo, del collezionabile più nascosto, è presente anche in modo importante, rendendo Death Stranding un pacchetto assolutamente appetibile per il gamer tradizionalmente inteso, perché dietro la sua natura cerebrale Death Stranding rimane comunque un videogioco a tutti gli effetti, con tutti gli annessi e i connessi, focus sul combattimento incluso. La furbizia di Kojima, come già fu per Metal Gear Solid, consiste nell’infilare concetti densi in qualcosa che al tempo stesso è totalmente videoludico e commercialmente sensato. Al tempo stesso ogni cosa che abbiamo appena menzionato è del tutto fuori dal focus dell’esperienza, sebbene si possa legittimamente prescindere dalla visione autoriale e trarre comunque piacere dall’esperienza; il bello del videogioco è proprio la sua natura ineffabile e multiforme, orchestrata dalla volontà autoriale ma di fatto radicalmente alterata dal giocatore.
https://www.youtube.com/watch?v=0eX0rUNHC2M
Path
Nella strada che ha condotto all’abolizione della violenza come meccanica radicata nel gameplay ci sono illustri vittime, da Dear Esther a Firewatch, tutte cadute sotto i colpi della sostanziale incapacità di creare game design non subalterni alla storia, attraverso meccaniche fin troppo limitate e in ultima analisi non divertenti. Death Stranding parte da premesse simili, ma sceglie di vincere la sua battaglia attraverso le armi del game design puro, ricorrendo alla testualità in ambiti strettamente separati dal gameplay. Ovviamente, l’idea di creare significato in un videogioco tramite la costruzione di legami non è nuova, tutt’altro: non creiamo forse dei legami con le nostre truppe in Fire Emblem? E che dire dell’affezione nei confronti di un Pokémon acchiappato 10 anni fa in Pokémon Nero? Se poi parliamo di letterale creazione di legami tramite le fetch quest, The Legend of Zelda: Majora’s Mask, e la quest di Kafei e Anju in particolare, ne sono il massimo esempio e incarnano un perfetto metro di paragone per descrivere quello che avviene in Death Stranding.
Kojima è stato geniale nel suo voler creare non tanto un impianto di design astruso e criptico per il solo gusto di esserlo, quanto piuttosto nella sua ricerca di una dignità per il gaming ricavata attraverso i suoi strumenti esclusivi, creando veicoli narrativi che prescindono dalla violenza ma non inficiano il divertimento. In questo senso, dicevamo, l’esperimento è riuscito solo in parte, poiché l’intenzione autoriale è chiarissima, ma il gioco in sé può risultare a tratti, banalmente e semplicemente, noioso (con i gadget avanzati a salvare parzialmente la situazione). Ma fortunatamente questo è pur sempre un gioco di Hideo Kojima, e alla fine il vero motivo per cui si affronta tutto ciò, da sempre, è la storia che ha voluto narrare. Fare spoiler sarebbe non solo criminoso, ma soprattutto difficile. Il plot twist occasionale è senz’altro presente, ma non è su questo che si fonda l’intensità e il carattere di ciò che andrà a vivere Sam Bridges. Ancora una volta Kojima dimostra di essere composto al 70% di film, come dichiara su Twitter, ed è interessante vedere come questa sua profonda cultura cinematografica sia espressa alla massima potenza in Death Stranding, la cui storia è tutt’altro che un mostro di Frankenstein fatto di idee visivamente interessanti, ma è bensì una visione condensata di un autore dalla personalità enorme, che riesce a sfruttare strumenti registici (come i livelli dimensionali di Nolan) e suggestioni ormai entrate nella cultura collettiva (come la Loggia nera di Twin Peaks) per creare una storia non originale di per sé, ma che si presenta come tale e finisce per diventarlo.
Il Death Stranding è il luogo solitario di quelle anime che si sono viste recidere i loro legami ritrovandosi sperdute nella crudeltà di un mondo ostile e senza speranza. La struggente malinconia che pervade le atmosfere del gioco è d’altronde ipnotica e spettrale, quasi quanto guardare dalla finestra in cima a un grattacielo, sporgendosi per vedere il vuoto più da vicino e vagheggiando l’idea di saltare giù. Death Stranding si insinua sottilmente sotto la vostra pelle, come un film di Cronenberg, e si connette direttamente alla vostra psiche, creando un’esperienza personale e psicologica destinata a essere segreta, meravigliosa e, soprattutto, solo e soltanto vostra. Sebbene la mente di un autore sia per natura imperscrutabile, è evidente la volontà di Kojima di parlare del nostro mondo, di condannare l’odio, di abbattere muri e costruire connessioni, in un momento in cui chiaramente la retorica trumpiana della violenza burocratizzata, della separazione anempatica che crea squadre e squadrismi, sconquassa il mondo con la sua insuperabile inutilità per il bene collettivo. L’America di Death Stranding è più vicina alle ambientazioni dello Stalker di tarkovskjiana memoria che all’eroismo dei film di Roland Emmerich e Michael Bay celebrati in Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty, ma d’altronde si individua chiaramente una connessione che unisce le due opere. Kojima continua a raccontare gli Stati Uniti d’America con lo stesso fascino innocente con cui un abitante di Tokyo potrebbe andare da Kentucky Fried Chicken e mettere su un DVD di Armageddon il giorno di Natale, uno sguardo lontano tra culture altrettanto lontane insomma, ma i cui destini sono inevitabilmente legati da un filo rosso e a tratti tinto di sangue. Anche questo è Death Stranding, dopotutto.
Personalmente Death Stranding è stato un percorso morale e di scoperta interiore, un viaggio iniziatico sospeso tra la vita e la morte. Ma può essere molte cose per chiunque, in virtù dell’effettiva presenza di un contenuto intellettuale di cui la maggior parte dei videogiochi tende a essere privo, per ragioni di pochezza spirituale o anche solo per l’essere privi dei mezzi concettuali e tecnologici a disposizione di Kojima Productions. L’idea di creature umane smembrate e senza nome, che vagano sconsolate cercando di rimettere a posto i pezzi dell’esistenza, ha la potenza immaginifica e iconica che è prerogativa solo dei grandi giochi, tale da poter affermare che Death Stranding ha raccolto l’eredità di Metal Gear Solid e il fascino dei suoi personaggi; ogni abitante di questo mondo narrativo ha una sua ragion d’essere e un aspetto che risuona in maniera differente con ogni singolo giocatore. Nel mio caso, il legame emotivo si è sviluppato con Heartman (che del resto ha non poche sfumature caratteriali riconducibili a Otacon), unito a un’istintiva simpatia per Deadman. La tecnologia dietro Death Stranding è impressionante, sebbene lo stupore legato alla resa dei personaggi stacchi di diverse lunghezze quello legato all’ambientazione. L’uso degli attori è una maestranza strumentale volta a raggiungere un livello altissimo di qualità ed emozione nella performance attoriale dei modelli 3D, sfiorato finora solo da Detroit: Become Human, e fortunatamente la grafica 3D trasfigura i volti affraccandoli parzialmente dalla dinamica commerciale della celebrity. La sensazione al momento è che la fama di Reedus preceda Sam Bridges, impedendogli di essere iconico come Solid Snake, ma è solo il caso più eclatante nonché chiaramente legato a inevitabili faccende marketing. Nonostante personaggi come Fragile (Lea Seydoux) sembrino raccontare di un buon equilibrio tra concept art originale, prova attoriale e modello 3D, anche in questo caso il compromesso tende a risultare un po’ ridondante, soprattutto di fronte all’eccellente lavoro che era stato fatto creando Venom Snake e dandogli la voce di Kiefer Sutherland nel fenomenale Metal Gear Solid V: The Phantom Pain.
Il numero in fondo alla recensione coagula una perfezione alchemica assoluta, ma che per definizione non può essere racchiusa in un perfect score, simbolo di completezza tuttavia incapace di incorniciare correttamente la tensione verso l’irraggiungibile, il tormento della creazione artistica, finanche le insopprimibili fallibilità umane alla base ogni grande opera. In altre parole, lo 0,1 mancante celebra l’imperfezione e il fallimento insite nell’ingegno umano, così come si celebrerebbe Leonardo da Vinci e la sua frustrazione nell’affrescare La battaglia di Anghiari. Se è vero dunque che un 10 non riuscirebbe davvero a incarnare l’essenza più pura di Death Stranding, in fondo ogni cosa che è rilevante sapere per inquadrare il gioco era già contenuta in quel bellissimo manifesto scritto da Kojima-san, nucleo concettuale di un’opera complessa che tuttavia si presenta con grande semplicità e umiltà, scevra di ogni “famolostranismo” che è stato suggerito negli scorsi mesi dai fan più fantasiosi. Parte del fascino di Hideo Kojima e delle sue opere, tuttavia, risiede nel grande gioco collettivo che si attiva a partire dall’annuncio di uno dei suoi giochi, e chiaramente anche Death Stranding non ha fatto eccezione. La crescita concettuale del videogioco in quanto medium è evidente in Death Stranding, destinato fin dall’inizio a essere un gioco che mette in crisi la critica e che probabilmente è destinato a farlo per sempre a meno che non si adotti nei suoi confronti un approccio socratico, basato sulla profonda comprensione del concetto di “esperienza interattiva” e dell’irriducibile natura polimorfa e complessa del medium videoludico. Commovente, intenso ma mai pretenzioso, Death Stranding è un manuale di game design e storytelling, che crea importanti significati per la nostra società a partire dai concetti più puri e primordiali che caratterizzano la condizione umana. Negando gli obsoleti dogmi dell’interattività, Kojima-san trascende quindi il concetto di “gioco” e arriva a sfiorare l’Arte.