Pinocchio Recensione

Pinocchio

Pinocchio | Se c’era un regista italiano che aveva le doti tecniche e la capacità narrativa per poter raccontare il Pinocchio di Collodi, quel filmaker non poteva che essere Matteo Garrone.
Da sempre attento a dare una svolta fantasy alle sue opere – si pensi all’inizio di Reality o a Il racconto dei racconti, tratto dal libro di Giambattista Basile – , l’autore romano si smarca dalle accuse di aver proposto, negli anni, un cinema cruento e, con la favola del burattino senza fili, realizza un film per grandi e piccini senza mai tradire gli archetipi della sua poetica di autore.

Pinocchio
Una scena del film

La potenza di un casting eccezionale

Ciò che colpisce sin dai primi momenti di questo Pinocchio è la perizia nell’assemblare un cast praticamente perfetto per le esigenze della sinossi. Gigi Proietti, ad esempio, è un Mangiafuoco formidabile, sia per l’interpretazione bonaria che per la capacità mimetica dietro uno dei personaggi più controversi del film.
Roberto Benigni, poi, è l’emblema di un cambio di prospettive struggente: nella sua edizione cinematografica (quella poco amata da pubblico e critica del 2002), egli vestiva i panni del protagonista. A quasi vent’anni di distanza invece si ritrova ad essere il padre putativo di una favola che grida toscanità da ogni interstizio. Il suo è un Geppetto umilissimo, fedele al romanzo, comico e al contempo dignitoso (la scena iniziale, nella bettola, resterà memorabile).
Ma se le abilità di due mostri sacri come Benigni e Proietti non erano nemmeno da mettere in discussione, la vera sorpresa del casting la rivelano il Gatto e la Volpe, ovvero Rocco Papaleo e Massimo Ceccherini (quest’ultimo anche autore della sceneggiatura assieme a Garrone). I due riescono a sintetizzare al meglio lo spirito truffaldino della coppia, tramite un’interpretazione ansiogena, basata sulle esagerazioni e le ripetizioni «Spizzichiamo, spizzichiamo!» ripetono in continuazione, alla ricerca convulsa di cibo.
Perché la fame è uno dei temi cardine del Pinocchio garroniano. Il suo è sempre stato un cinema degli ultimi (Dogman, Gomorra, L’imbalsamatore) ed anche in questa tragica vicenda travestita da fiaba il focus principale resta quello di un’Italia post-unitaria, popolata da artigiani, contadini, pastori. Il regista allora calca la mano su questo aspetto, alternando la chiave fantasy ad una profonda indagine etnografica, restituita attraverso paesaggi che ricordano la pittura dei macchiaioli e volti che rimandano alle figure borderline dei quadri di Caravaggio.

Pinocchio
Pinocchio con Lumaca e la Fata Turchina

 

Una produzione importante, senza l’epica del blockbuster

Il risultato è dunque un’operazione ambiziosa, una riedizione della favola italiana più famosa pensata appositamente per incantare tutti durante le feste natalizie.
Certo, questo Pinocchio dialoga spesso con le opere precedenti e crea legami importanti con le narrazioni dei decenni passati.
Garrone, durante la conferenza stampa, ammette di essersi ispirato alle tavole di Enrico Mazzanti per ricostruire i suoi personaggi principali. Ma altrettanto importante, per l’esperienza dell’autore, sembra essere il Pinocchio televisivo realizzato da Luigi Comencini nei primi anni ’70 (con uno struggente Nino Manfredi).
Di quella miniserie, oltre al flauto della colonna sonora, sembra tornare la poetica dei vinti cara anche a Manfredi-Comencini. Tornano la fame, la povertà,  gli espedienti per tirare a campare. Tutti elementi, questi, che la più famosa trasposizione Disney aveva deliberatamente omesso per rendere meno traumatico il racconto. E che invece l’autore ha il merito di riportare in auge, realizzando una personalissima rilettura della morale collodiana.

Nella fiaba originale, il burattino diventava bambino solo se faceva il bravo e smetteva di dire le bugie. In questo film, invece, la marionetta ha una sua dignità solo nel momento in cui cambia, cresce ed inizia a guadagnarsi da vivere col sudore, con il sacrificio.
Forse questo cambio di prospettive non ha un impatto immediato per chi guarda. Ma i grandi film sono quelli che, dopo la proiezione, ti restano addosso per ore ed ore, facendoti riflettere su ciò che hai visto. E già solo per questo, il Pinocchio firmato Garrone è un’esperienza che va assolutamente vissuta. 

Gianluca la passione per il cinema la scopre a 4 anni, quando decide che il suo supereroe nella vita sarà sempre e solo Fantozzi. 
Poi però di quella passione sembra dimenticarla fin quando, un giorno, decide di vedere uno dietro l’altro La Dolce Vita di Fellini, Accattone di Pasolini e La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino. Da quel momento non c’è stato verso di farlo smettere di scrivere e parlare di cinema, in radio e su portali online e cartacei. 
Vive a Roma perché più che una città gli sembra un immenso set su cui sono stati girati chilometri e chilometri di pellicola. 
Odia le stampanti.