Ratched Recensione: before the cuckoo’s nest

Era il 1962 quando un appena ventisettenne Ken Kesey pubblicava il suo romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo. L’opera derivava dall’esperienza diretta dell’autore, che sul finire degli anni Cinquanta aveva lavorato come inserviente del turno di notte in un ospedale per veterani di guerra a Menlo Park, in California. Forse però, nemmeno Kesey si aspettava il successo che il suo libro avrebbe avuto: nel 1963 il divo hollywoodiano Kirk Douglas ne acquistò personalmente i diritti per realizzare un adattamento teatrale con lui stesso come protagonista e Gene Wilder al suo fianco. Nel 1975 Douglas decise di cedere i diritti sull’opera a suo figlio Michael che, insieme al produttore Saul Zaentz, ne fece un adattamento cinematografico, diretto da Milos Forman, che ebbe, usiamo un eufemismo, un tantino di successo. Qualcuno volò sul nido del cuculo vinse cinque premi Oscar: Miglior film, Miglior regia, Miglior sceneggiatura non originale, Miglior attore protagonista e Miglior attrice protagonista, un’impresa riuscita ad altri due soli film in tutta la storia del cinema (Accadde una notte e Il silenzio degli innocenti), trionfando su tutta la linea.

Nel grandioso atto d’accusa contro il sistema psichiatrico oppressivo, brutale e disumano che tanto il libro, quanto il film mettono in scena, c’è l’ombra dello scontro epocale che avrebbe dilaniato gli anni Sessanta, nel quale due visioni diverse del mondo sono rappresentate dai due protagonisti. Da una parte troviamo l’inno alla libertà individuale, il tentativo di affermazione delle esigenze e delle prerogative del singolo rispetto alla società, dell’unicità della persona, rappresentate da Randle Patrick McMurphy, magistralmente portato in scena da un ispiratissimo Jack Nicholson, dall’altra ci sono la rigidità e il conformismo della società tradizionale, tanto perbenista e bigotta quanto sottilmente crudele, personificate dall’infermiera Mildred Ratched, il cui ruolo venne rifiutato, in maniera molto lungimirante (lo diciamo con giusto un filo di sarcasmo), da ben sei attrici (Anne Bancroft, Geraldine Page, Ellen Burstyn, Tippi Hedren, Colleen Dewhurst e Angela Lansbury) prima di essere affidato a Louise Fletcher, che grazie ad esso entrò, in modo indelebile, nella storia del cinema.

Tanto interessante, complesso e sfaccettato è il personaggio di Mildred Ratched che, a quarantacinque anni di distanza dalla sua prima apparizione su uno schermo, lo sceneggiatore Evan Romansky le ha dedicato una miniserie prequel, Ratched, prodotta e diretta da Ryan Murphy (già noto per i suoi grandi successi seriali come Nip/Tuck, Glee, American Horror Story e il più recente Hollywood), che Netflix è riuscito ad aggiudicarsi nonostante la concorrenza di Hulu e di Apple TV+.

Ratched: sul filo della follia

California, 1947. Una donna viaggia, a bordo della sua splendida Plymouth Special Deluxe Sedan, lungo la spettacolare costa del Big Sur per raggiungere la piccolissima cittadina di Lucia. Il suo nome è Mildred Ratched, e il suo scopo è quello di ottenere un impiego come infermiera presso la Clinica Psichiatrica Statale diretta dal dottor Richard Hanover, con la collaborazione dell’infermiera Betsy Bucket. Al suo arrivo troverà la cittadina in fermento: proprio per quel giorno è atteso infatti l’arrivo alla clinica di Edmun Tolleson, un pericoloso assassino responsabile del massacro di quattro preti cattolici. Le autorità giudiziarie californiane hanno infatti richiesto una valutazione psicologica al dottor Hanover, per capire se Tolleson sia sano di mente, e quindi processabile per i suoi crimini. Mildred riuscirà a ottenere il posto, ma l’infermiera sembra nascondere un segreto molto oscuro, che sembra avere a che fare con il killer appena rinchiuso a Lucia.

Non mi permetto di svelare altro sulla trama di Ratched, per evitare di incappare involontariamente in qualche fastidioso spoiler che possa rovinarvene la visione, o inquinare la sorpresa generata dai tanti plot twists che popolano gli otto episodi di questa prima stagione. Ma, nonostante un intreccio costruito in modo impeccabile, la vera potenza di questa serie sta nei suoi personaggi, che vengono sviluppati, approfonditi e studiati in modo minuzioso, regalando agli spettatori dei ritratti sfaccettati e intensi, capaci di mostrare la natura intima, a volte contraddittoria, di persone che vivono ogni giorno sul filo della follia. Tutta la costruzione dei personaggi sembra infatti giocare con la definizione stessa di ciò che è folle e ciò che non lo è, e spesso sono proprio il dottore e le infermiere a sembrare persi nel baratro della pazzia, molto più di quanto non lo siano i loro pazienti (anche se di pazienti non se ne vedono poi molti, ma su questo ci torneremo). Un plauso va fatto ovviamente agli interpreti (che ho avuto modo di apprezzare doppiamente, avendo visto la serie in lingua originale), a partire da una Sarah Paulson meravigliosa nel ruolo di Mildred Ratched, a volte inquietante e machiavellica, e altre vittima indifesa, vulnerabile, capace di riunire in un’unica testa le due personalità di un altro suo famoso ruolo, quello delle gemelle siamesi Bette e Dott Tattler di American Horror Story Freak Show. Accanto a lei Jon Jon Briones è commovente e poliedrico nei panni di un dottor Richard Hanover che è da una parte entusiasta, geniale, umano nella sua sincera e quasi utopica volontà di aiutare qualcuno, di guarire la mente, da un’altra autoritario, freddo e crudele nei metodi, ma anche succube, debole, spaventato e pusillanime. E ancora, Finn Wittrock, praticamente perfetto nel dar vita a un Edmund Tolleson feroce e bestiale, senza sentimenti o morale, ma capace anche di gentilezza, di umanità, persino d’innamorarsi, che lascia lo spettatore interdetto e confuso nel chiedersi dove sia il confine tra crudeltà e malattia mentale. Infine Judy Davis è magistrale nel suo ruolo di Betsy Bucket, portando in scena un personaggio che ha molto della Mildred Ratched originale, rigida, ligia alle regole, sottilmente crudele, e anche manipolatrice, una sorta di Dolores Umbridge in camice da infermiera, che tuttavia si evolve, matura, cambia.

Non solo il cast principale, però: anche i personaggi ricorrenti sono portati in scena in modo davvero intenso. Dalla ricca ereditiera assetata di vendetta Lenore Osgood, interpretata da una eclettica Sharon Stone, a Charles Wainwright, l’investigatore dalla dubbia moralità di Corey Stoll; dalla vanesia e disturbata infermiera tirocinante Dolly, un’ottima Alice Englert, al sadico governatore della California George Milburn, interpretato da un Vincent D’Onofrio che è forse tra le migliori cose lasciate da Stanley Kubrick al mondo del cinema (il che è tutto dire); dalla combattuta, romantica e al tempo stesso calcolatrice Gwendolyn Briggs di Cynthia Nixon al dolcissimo e puro Huck Finnigan interpretato da Charlie Carver, fino alla Charlotte Wells di Sophie Okonedo, che riesce a portare in scena in maniera verosimile, disturbante e mai banale il fin troppo spesso abusato disturbo di personalità multipla. Una prestazione attoriale veramente straordinaria, da parte di un cast unico nel suo genere.

American Horror Story: Ratched

Sarebbe stato impossibile pretendere che in una nuova serie horror Ryan Murphy non si portasse dietro qualcosa del suo più grande successo seriale in questo particolare genere. A Ratched mancava soltanto un ruolo affidato a Evan Pieters per essere legittimamente scambiata con l’ennesima stagione di American Horror Story. Nel corso della serie, e in particolare nei primi episodi, l’atmosfera che si respira è più o meno la stessa, nonostante l’ambientazione sia profondamente diversa. Le scene degli esterni sono dominate dalla spettacolare costa californiana, ma non sono mai luminose o solari, e anzi sono quasi sempre coperte da una continua cappa nuvolosa. L’interno dell’ospedale invece ricorda quello di un pacchiano albergo di lusso nell’America degli anni Cinquanta, coi sui marmi tirati a lucido e le sue colonne: quanto di più lontano dagli ambienti asettici e squallidi di un American Horror Story Asylum o anche dello stesso Qualcuno volò sul nido del cuculo, ma dietro questa apparenza fastosa, dietro i colori pastellosi ma incredibilmente saturi delle auto, dei vestiti, persino delle uniformi delle infermiere, c’è un grigiore di fondo, la percezione onnipresente che sia tutto una montatura. Basta grattare la superficie patinata per ritrovare lo squallore, la brutalità, l’indifferenza, le pratiche psichiatriche inumane come l’idroterapia e la lobotomia.

Per assurdo però, pur essendo di fatto ambientata in un manicomio, Ratched di malati mentali ne mostra davvero pochi, e dopo qualche episodio, l’ambiente dell’ospedale scolora a semplice cornice di una vicenda intricata e più “intima”, relativa alla protagonista. Una direzione che la serie può legittimamente prendere, ma che lascia il retrogusto di qualcosa di incompiuto, e qualche piccola incoerenza che torna nel corso della serie (è il caso dei pazienti sottoposti a lobotomia nel primo episodio che non ne mostrano però in alcun modo i segni nelle puntate successive). Incoerenze che vanno ad aggiungersi a qualche svista e imprecisione di carattere meramente storico, come la rappresentazione di una società americana di fine anni Quaranta apparentemente troppo aperta e tollerante dal punto di vista razziale e sessuale, o la citazione della chemioterapia con quasi vent’anni d’anticipo sulla sua reale scoperta.

Tributi, rimandi e citazioni

I dettagli a volte possono fare una differenza enorme, e Ratched su questo gioca moltissimo: c’è tutto un complesso di tributi, rimandi e citazioni, più o meno velati, non solo al libro o al film, ma al cinema horror più in generale. Se la citazione più cristallina è chiaramente il look scelto per la Paulson, che ricalca fino all’ultima ciocca di capelli quello della Fletcher in Qualcuno volò sul nido del cuculo, ci sono altri dettagli della serie che potranno apparire familiari a chi ha già visto la pellicola di Forman: il modo in cui Ratched tiene le chiavi della clinica, in un cerchio di metallo infilato al braccio, o la somiglianza tra la stanza dell’idroterapia che viene usata nella miniserie e la stanza della vasca in disuso del film. Persino il trasferimento di Tolleson nell’ospedale psichiatrico avviene per le stesse ragioni di quello di McMurphy, e cioè per una valutazione della sanità mentale. Addirittura alcune delle inquadrature nei corridoi della clinica ricordano lo stile claustrofobico del Kubrick di Shining. E infine il racconto del trip di LSD del dottor Hanover con il suo paziente Henry Osgood, immerso in una atmosfera onirica da incubo, e illuminato da una terrificante luce rossa, potrebbe essere un lontano richiamo alla vita di Ken Kesey stesso, che dopo aver partecipato, nei suoi anni universitari, al progetto MKULTRA della CIA, provando varie droghe psicoattive, aveva continuato a fare uso di acidi e allucinogeni, organizzando dei festini a base di LSD e mescalina che sarebbero stati descritti in alcune poesie di Allen Ginsberg.

Una nota finale va fatta sugli aspetti più tecnici. Ratched si basa su una regia dinamica e frizzante, che non stanca e mantiene sempre vivo l’interesse dello spettatore, senza sovraccaricarne l’attenzione. Bellissima la scelta, durante dialoghi serrati e ad alta tensione, di dividere in due lo schermo prima di cambiare inquadratura, come sono bellissimi i cambi di luce che, insieme a una colonna sonora straordinaria e sempre azzeccata, sottolineano i momenti più crudi o inquietanti della trama. Anche senza queste scene comunque, le luci sono sempre dosate con sapienza dal regista, che sa utilizzarle per generare momenti di angoscia, ansia o vero e proprio terrore.

In conclusione, Ratched è una serie di livello molto, molto alto (anche se era forse lecito aspettarsi tanto da Ryan Murphy), che conta su un cast incredibilmente dotato e su un’atmosfera horror ben collaudata. Un prodotto che si lascia guardare con gioia, invitando anche un po’ al bingewatching, e che riuscirà a tenervi con il fiato sospeso in attesa della seconda stagione (che, non preoccupatevi, è già stata confermata). Un solo avvertimento rivolto a chi, magari, si avvicinasse per la prima volta al genere o a un prodotto di questo tipo: molte scene sono crude, disturbanti, brutali senza grosse censure. Sentirete lo stomaco stringersi, mentre la serie vi colpirà sia a livello fisico che emotivo, coinvolgendovi in modo molto intenso. Se non siete pronti a questo tipo di esperienza, Ratched non è proprio la serie che fa per voi. Per tutti gli altri invece, questo è davvero un must-watch imperdibile.