La definizione di “antologia” dovrebbe essere a tutti piuttosto chiara sin dai tempi del periodo scolastico. Chi più chi meno, avrà dovuto leggere qualcosa in classe davanti ai docenti o steso sul letto con la calura e la pesantezza di una mancata giornata di sole e svago, rendendosi poi conto, forse e distrattamente, che non è tanto male questa fantomatica raccolta, la quale solitamente cela, tra le righe, quei piccoli rimandi stilistici e non solo dell’autore dei testi presenti, facendo sì di render comune e verosimilmente congruo, per un certo verso, tutto questo ammasso di testi. Così come funziona il processo per una classica antologia di scritti, lo stesso vale per quella a cui Supermassive Games sta puntando, che è a tutti gli effetti e per definizione appunto (nonché ovviamente per il nome), un’antologia, seppur di differente tipo, data la forma dei contenuti in essa. Parliamo di The Dark Pictures Anthology e del suo secondo racconto, Little Hope. Venendo dal passato con Until Dawn sotto le spoglie (aggiungerei un “mentite”, visto l’alto livello di produzione di quest’ultimo) di sviluppatore indie e, una volta trovatosi sotto l’ala protettrice di Bandai Namco, con il primo della serie Man of Medan, lo studio britannico cerca di migliorarsi sotto specifici punti di vista senza distaccarsi dall’obbiettivo ultimo. Tanti sono i punti da analizzare in questa recensione di The Dark Pictures Anthology Little Hope e direi, quindi, di iniziare pure a sciogliere i nodi che si presenteranno man mano nell’analisi.
The Dark Pictures Anthology Little Hope: ciak, si gioca!
Proprio come il suo predecessore (o “predecessori”, contando Until Dawn), Little Hope vuole regalare al giocatore-spettatore le stesse emozioni che solo la settima arte riconosce come proprie. Le emozioni che possiamo provare vedendo un film, horror in questo caso, sono sicuramente qualcosa che tutti abbiamo provato nella vita e Supermassive Games non si allontana affatto da questa definizione delle cose. Il racconto in analisi ha la fortissima impronta cinematografica, data da molteplici fattori e i più di questi ben riusciti, a patto che chiudiate l’occhio su delle sbavature di diverso livello. Partendo da quello che più immediatamente è visibile, i personaggi all’interno sono dei veri e propri attori. A partire da Will Poulter, ai più conosciuto per Narnia o visto in Black Mirror Bandersnatch o, ancora, nell’horror dello scorso anno Midsommar, fino a Pip Torrens, tutto il cast riconduce ad un’ibridazione delle due forme d’arte, il videogioco che incontra il cinema. Questo, come detto, è solo la punta dell’iceberg. Affrontando l’avventura è sin da subito evidenziato il modo in cui il tutto va avanti a suon di tagli registici, inquadrature varie e primi piani; elementi appositamente creati per muovere il pensiero del giocatore che, giocando, vive contemporaneamente un film con la piacevole opportunità, nonché fulcro dell’intera esperienza, di plasmare a proprio piacimento le strade di ciascun personaggio per poi vederne la fine ma, su questo, ci torneremo più tardi.
L’Unreal Engine 4 spinge non poco la PlayStation 4 su cui ho completato l’avventura e l’impatto visivo è più che notevole. Complice un intelligente messa in atto del setting da parte di Supermassive Games, la quale ha saputo destreggiarsi benissimo in cosa e quando mostrare dell’ambientazione (sulla quale, tranquilli, spenderemo tante parole), l’illuminazione globale risulta davvero ben fatta, mettendo in risalto quando utile, quella volumetrica, data dalla perenne nebbia che circonda i personaggi all’esterno degli edifici. Le texture abbassano di poco l’asticella ma, tutto sommato, ottime e molto pulite, per quanto non molto dettagliate delle volte. Diverso conto per i personaggi, un alto livello di dettaglio e con movimenti realistici, quest’ultimi catturati in motion-capture e successivamente raffinati in studio seppur, di tanto in tanto, qualche animazione risulti “finta” che, per carità, non è poi un male così esagerato ma, vedendo il resto della produzione, è messa sotto una luce ancor più negativa, facendo storcere un po’ il naso.
Come avrete già capito, la telecamera giocherà un ruolo fondamentale per tutta l’avventura. Omettendo la semplice operazione di “inseguimento” che è ovviamente tenuta a fare nel più del titolo, molti saranno i momenti in cui, arrivati in un determinato punto di coordinate X e Y scelte appositamente dagli sviluppatori, questa cambierà improvvisamente angolazione e, alcuni di questi istanti saranno fatti appositamente per mostrarvi qualcosa che solitamente il gruppo non riuscirà a vedere (accompagnati da suoni fatti ad hoc per il frame di inquadratura), mentre in altri, sarà solo l’idea di darvi un diverso spettro di visione per far meglio assaporare il tutto, cosa che, personalmente, ho davvero apprezzato. La colonna sonora, importantissima nelle produzioni cinematografiche ma non solo, non gioca un ruolo così fondamentale se volgiamo lo sguardo alla totalità dell’opera. I canti gregoriani inseriti apposta in precisi punti della storia fanno la loro gran bella figura ma altre tracce di rilievo non è facile trovarle. Discorso diverso invece per i vari suoni, ambientali e non, i quali rappresentano una buona fetta dell’esperienza audio e che vengono ben inseriti in tutto il contesto.
Ultimo particolare, non per importanza, su cui sento di dover mettere un accento è quello del doppiaggio e della sua localizzazione in italiano. Il gioco è interamente tradotto in italiano, dall’audio ai testi. Tutto può esser compreso, in teoria. Il doppiaggio ha minimi problemi tecnici (mancanza di alcune linee di dialogo in italiano) che lo sviluppatore risolverà in una Day One Patch e non saranno quindi un problema. Per quanto però, i problemi “tecnici” siano minimi, altro discorso è per quelli di natura interpretativa, per così dire. Il gioco, fortemente basato sul cast di attori e, quindi, sulle prove attoriali di questi, potrebbe perdere per qualcuno se giocato con il doppiaggio in italiano e cercherò di spiegare il perché piuttosto brevemente. Per quanto il doppiatore di Will Poulter, all’interno di The Dark Pictures Anthology Little Hope, sia lo stesso che lo vede doppiare il giovane attore inglese in vere produzioni cinematografiche e, quindi, mantiene un certo livello su quasi tutta l’opera, gli altri non riescono sempre a tener su un certo standard.
Spesso, i doppiatori (e di conseguenza i personaggi, ancor più importante) sembra cadano dalle nuvole. La suspense e tutto il carico di emozioni che determinate scene dovrebbero creare vengono più volte incrinate da prove non sempre di altissimo spessore. Avendo giocato e completato la storia per due volte, ho avuto la possibilità di testare sia il doppiaggio italiano(con l’esperienza appena descritta) che l’originale. Inutile dire che non vi è alcun paragone tra le due cose. L’atmosfera che si respira, grazie agli attori e al peso che danno alla loro voce in generale in merito alla situazione, con tanto di espressioni del volto (senza contare che il lip-sync, ovviamente in lingua originale, è molto accurato seppur non ancora ai livelli della perfezione) è piuttosto diversa e molto, molto più gradevole.
Non siamo qui però solo per apprezzare un’opera che vuole “travisare” senza malignità l’immagine del videogioco a proprio piacimento. L’idea è sicuramente ben accetta e, comunque, non sarebbe la prima software house a fare una cosa del genere (Quantic Dream e Heavy Rain dicono qualcosa?) seppur modificando il modo di giocarlo. Sarà infatti possibile, come il precedente titolo della raccolta di racconti, giocare interamente da soli oppure con un amico online o ancora e, molto bella come iniziativa, affrontare l’avventura in modalità Serata al cinema, la quale permette fino a cinque giocatori di portare avanti la storia, ognuno con un differente personaggio e con a disposizione solo un controller che passerà di mano in mano. Sicuramente da provare quando si è sotto festività come Halloween o attività di gruppo in generale.
Abbandoniamo ogni speranza
Avendo descritto la natura del titolo adventure-horror, passiamo ora a quelli che sono gli elementi di trama, sicuramente importanti per un gioco di questo tipo dove gli spoiler sono dietro l’angolo e, spero, capirete bene la difficoltà nello spiegare qualcosa che non si può menzionare apertamente. Little Hope farà da sfondo e contemporaneamente da protagonista nelle vicende dei cinque personaggi. L’opera veste lo spettatore da viaggiatore del tempo, se così si può dire, permettendogli di passare tra epoche differenti all’interno della stessa cittadina situata nel nord-est degli Stati Uniti, immersa nel verde e proveniente da una storia piuttosto travagliata. Travagliata perché, quell’angolo di mondo chiamato Little Hope, ha subìto il nefasto passaggio della caccia alle streghe tenutosi alla fine del XVII secolo. Tale avvenimento si collegherà ai due periodi rimanenti, gli anni Settanta e i nostri giorni.
Il primo di questi due fungerà da introduzione del gioco, durante il quale capiterà di tutto e di più e conosceremo vari personaggi uguali ai protagonisti che useremo di volta in volta, nella linea temporale odierna. I cinque, infatti, si ritroveranno a fare i conti con ben due passati dopo un incidente avuto per strada, sulla via di una gita didattica che si trasformerà in una fuga da quel luogo maledetto, scoprendo retroscena inquietanti sui cittadini e sulla storia del luogo. Il gruppo in viaggio, formato da quattro studenti, un docente universitario e un autista apparentemente scomparso che non farà parte dei cinque, è altresì formato da personalità molto differenti tra loro ma con un passato personale del tutto sconosciuto. Difatti risulterà parecchio strano il fatto che, di questi personaggi, non si saprà nulla nel “tempo moderno” ma, quasi paradossalmente, avranno molto più da spartire con i loro avi del passato.
Gli anni Settanta sono stati l’apoteosi di quel movimento che, all’epoca e al giorno d’oggi, possiamo chiamare New Age. Tale corrente subculturale che tanto riprende contenuti, seppur altamente modificati, di religiosità e spirito interiore è, all’interno della produzione, l’elemento che concilia il passato di Little Hope del XVII secolo (la quale si può vedere come una Salem del medesimo periodo e nel tempo moderno in cui si ambienta la parte giocata) con la facciata della stessa cittadina durante l’epoca del Settanta.
I nostri cinque sfortunati però, non saranno gli unici personaggi che vedremo. Tanti saranno gli altri e Supermassive Games ha fatto un ottimo lavoro nel collegare tutti i puntini, portando il giocatore a cercare per davvero la verità all’interno dell’opera, facendoci scavare fino al dettaglio più minuzioso. La Little Hope che vi si parerà davanti, però, sarà quella che a qualcuno potrebbe ricordare, nemmeno troppo “alla lontana”, una Silent Hill. La nebbia onnipresente sarà compagna fidata di una bambina che seguirà (o si fa forse seguire?) il gruppo e, assieme a lei, inizieranno a comparire quelle che sono delle creature delle quali non vi dirò troppo sul loro conto ai fini di trama ma, posso assicurarvi, portano molto in alto la suspense per una serie di motivi che vanno dal semplice aspetto, alla loro silhouette fino ai rumori, gorgoglii e dettagli legati ai personaggi (questo lo capirete giocandoci, senza se e senza ma). Sono stati studiati ad hoc per apparire in un certo modo e con determinate azioni e possono risultare nell’apparire come uno dei fiori all’occhiello dell’intera produzione. In questo, si può davvero dire che lo studio britannico abbia lasciato ben poco al caso, pur notando alcuni scivoloni, pochi fortunatamente, che possono davvero dare fastidio, soprattutto quando questi sono poi legati alla storia, come ad esempio noterete un personaggio che avrà un segno sul corpo il quale dovrebbe, di regola, essere lì per una nostra scelta e, per quanto possa risultare piccolo o di relativa importanza (ma vi assicuro che non è così), invece apparirà in modo predefinito, letteralmente sminuendo quello che abbiamo deciso a priori.
Lungo l’avventura, come già detto, faremo la conoscenza di vari personaggi e, spesso, ci toccherà interagire con loro per capire cosa sta accadendo in quel di Little Hope. Inizialmente, il giocatore noterà una certa lentezza nell’andare avanti ma non sarà mai forzato. Sicuramente positivo, rispetto al capitolo precedente, il lavoro svolto da Supermassive Games nello scioglimento della trama. Se in Man of Medan gli elementi arrivavano, da un certo punto in poi uno dopo l’altro, andando così a rompere il sottile filo di ansia creato nel giocatore, in The Dark Pictures Anthology Little Hope il tutto fila in maniera più consona a quella di un film, arrivando al pathos nel momento più propizio. Dall’inizio alla fine, il titolo si lascerà davvero giocare e la trama, soggettivamente più carica di quella del suo predecessore, è scritta in un modo che, seppur portando con sé molti stereotipi (la “solita” bambina che gira per la cittadina sperduta, con tanto di canzoncina creepy) e numerosi cliché da film horror moderno, riesce a tenere incollato il giocatore. Badate bene che per capire appieno la trama, vi servirà girare in lungo e in largo per trovare i segreti sparsi nelle varie sezioni. Il gioco, pur essendo ambientato in una città (la quale è un palese rimando alla vera Salem dello Stato statunitense del Massachussetts), non vi lascerà andare in giro a vostro piacimento; sarete inchiodati alle varie sezioni man mano che proseguirete l’avventura. In ciò non si distacca da Man of Medan ma, sicuramente, vi garantirà degli spazi più grandi (anche dato dal fatto che il primo capitolo era ambientato a bordo di una nave) in cui muovervi e, di conseguenza, trovare i vari segreti sparsi per il “livello” mentre vi gustate tutta l’atmosfera.
The Dark Pictures Anthology Little Hope: l’arte del perfezionamento
The Dark Pictures Anthology Little Hope porta con sé il modello adottato in Man of Medan per quanto concerne la tipologia di gioco, l’approccio ad una storia, la possibilità di scegliere determinate azioni o linee di dialogo e così via, per poi arrivare a modificare la storia e, conseguentemente, il finale o meglio, i finali molteplici, ove quest’ultima sezione fa da perno dell’intera esperienza proposta da Supermassive Games. All’uscita del primo racconto, non furono pochi i problemi più visibili agli occhi dei più. Si parla di velocità di movimento troppo bassa, Quick Time Event troppo rapidi e senza alcun preavviso (ovviamente non si può avere un preavviso in un horror, altrimenti perderebbe molto; il problema fu dato spesso dalla mancanza di contesto del “perché il giocatore dovesse premere qualcosa in quel preciso momento” e soprattutto ad una velocità non così irrilevante) e azioni che portavano al proseguimento dell’avventura (anche qui, senza avviso alcuno) quando magari il giocatore voleva farsi i fatti suoi per esplorare o riprendersi dall’ennesimo jump scare. Questi e altri problemi di cui discuteremo a breve hanno afflitto la prima produzione ma, a questo giro, il team ha voluto ascoltare i feedback dei fan, andando a muovere quanto basta alcune piccole meccaniche per perfezionare il modello già in uso.
Little Hope scorre in modo molto più fluido, riferendomi ai punti sopra elencati. La velocità di movimento è aumentata, sempre restando nel realismo e mai rompendo l’atmosfera; i QTE sono stati migliorati con delle icone che avvertono il giocatore qualche istante prima che partano e sono state aggiunte icone context sensitive per aiutare il giocatore a capire se, con una determinata azione, si proseguirà nell’avventura o meno (compariranno delle frecce accanto al tasto da premere, segnalando che con tale azione si andrà avanti e non sarà possibile tornare sui propri passi). Sicuramente, con tali accorgimenti, il gioco ha raggiunto un nuovo stato di “pulizia” e sicuramente di chiarezza, cosa che personalmente, avendo anche giocato il primo, ho molto apprezzato e sarà probabilmente apprezzata da tutti i fan. Ora arriviamo, dopo una beata lista di note positive con ben poco altro da dire, ai punti dolenti di tutta l’esperienza che, sempre secondo colui che non è (o non dovrebbe esser) impazzito, vanno a minare quasi tutto quello detto finora.
The Dark Pictures Anthology Little Hope: vecchia formula, vecchi errori
La storia è, ovviamente, il punto centrale che accompagna il giocatore e che lo spinge a continuare e questo secondo capitolo ha, come già fatto capire, qualcosa in più rispetto al precedente. Tale narrativa però non sempre basta a tener su l’attenzione e dovrebbero quindi entrare in gioco i personaggi, sia quelli di rilievo che di contorno. Quando però, si arriva al punto di voler sentire cosa abbia da dire il Curatore (personaggio davvero ben fatto e che suscita una profonda curiosità, visto il suo ruolo nell’antologia) invece che provare a capire alcuni discorsi che i personaggi scambiano tra loro, vuol dire che c’è qualcosa che non va. Non intendo dire che tutte le linee di dialogo non abbiano senso ma, con alte probabilità, il giocatore ad un certo punto si troverà a chiedersi il perché di molte righe di dialogo che i cinque si scambiano, soprattutto verso la prima ora. Sopra, nel corso dell’analisi, ho accennato all’inesistente passato dei personaggi; bene, mi sto riferendo proprio a quello. Ma tranquilli perché qui, per fortuna, entra in gioco l’intera storia. Non posso dire molto a riguardo ma, se ci si mette d’impegno, si trova un forzatissimo “perché” a tutto ciò che succede, o quasi. È proprio questa forzatura uno dei grossi problemi che ho riscontrato nell’esperienza. La profondità di tutta la trama proviene da una questione che non è affatto banale, qualcosa che ha a che fare con i propri mostri interiori (e qui lo spunto delle creature all’interno del gioco, un tocco davvero ben riuscito). Il Curatore stesso saprà dirvi di più a riguardo, visto che potrete rispondere direttamente a lui su due precise domande, ma non andrò oltre con questo personaggio. Un giusto accenno è da fare invece ai principali, i quali avranno dei lati del proprio carattere che saranno “sbloccati” solo compiendo scelte ben precise e, tali lati se sbloccati (che poi risultano essere quelli più d’impatto per la caratterizzazione di ciascuno di essi) porteranno a delle rinnovate e spesso pesanti conseguenze fino alla fine del gioco.
Per quanto, riguardo ciò che si è detto poco sopra, si possano trovare delle pezze a colori, per il prossimo e ultimo punto della recensione, il sottoscritto non ne ha trovata alcuna, di pezza.
Fondamentale importanza hanno le scelte che il giocatore-spettatore sarà tenuto a compiere. Siano queste azioni, come scappare o combattere o, ancora, aiutare uno piuttosto che l’altro personaggio, o siano “semplici” linee di dialogo tra cui scegliere, a colui con il controller va la decisione finale e la responsabilità di ciò che fa. Omettendo le azioni riportate poco sopra le quali, per natura e quindi come giusto che sia, possono prendere pieghe difficili da prevedere, i dialoghi rimangono un estremo punto interrogativo durante tutto il gioco. Cercando di non divagare troppo, riassumo in pochi passi il tutto.
Un potere decisionale così forte non può esser lasciato a letteralmente due scelte su tre possibili, ove la terza altro non è che “non dire nulla” con conseguente e ripetitiva, seppur in varie salse, esortazione dell’altro o altri personaggi del momento a “dir qualcosa”, appunto. Non solo il numero ristretto di due scelte, che corrispondono al ragionamento fatto “di cuore” o “di testa”, potrebbe già di per sé essere un problema seppur in minor misura, visto che il modello adottato dagli sviluppatori, incluso il poter scegliere solo tra due possibili opzioni, segue un preciso fine, ma a ciò si aggiunge il vero e, per me, grave errore di non esplicare esattamente le intenzioni.
Attenzione, non si sta dicendo che debbano dare accesso a quanto accade dopo perché, ovviamente, il cardine dell’esperienza è alla fine attenersi a quelle scelte, pur non potendo prevederne gli effetti, soprattutto a lungo andare e come è giusto che sia. Quello che può esser davvero irritante è il leggere un’opzione, capire una cosa per via di una descrizione per nulla accurata e poi subirne le conseguenze magari completamente opposte e, il giocatore, rimane lì con il controller in mano che si dice, fra sé e sé “ma non era questo quello che volevo dire”. Bene, aspettatevi quasi per certo delle situazioni di questo tipo. Complice, seppur non diretto imputato, una localizzazione malfatta e a volte decontestualizzata rispetto alla situazione corrente. Inoltre, giocando con il doppiaggio originale e testi in italiano, è spesso accaduto che ciò che gli attori dicessero non fosse assolutamente appropriato leggendo i sottotitoli ma, anzi, è capitato addirittura che fosse l’esatto opposto, a voler essere pignoli. Quest’ultima parte, magari, può esser vista come un elemento “minore” volto a trovare il pelo nell’uovo, ma per chi vuole un’atmosfera fatta come si deve, potrebbe risultare quantomeno fastidioso.
CONCLUSIONE
The Dark Pictures Anthology Little Hope è un passo avanti per la Supermassive Games e nemmeno così scontato come si possa pensare. La storia è più incisiva rispetto al predecessore e il setting sicuramente più interessante. I finali non sembrano essere poi così tanti ma, con una durata di circa sei ore, poco più poco meno, questi possono risultare piuttosto azzeccati e più eterogenei rispetto a Man of Medan. Purtroppo, però, per quanto i miglioramenti ci siano e si vedano anche chiaramente, Little Hope soffre ancora di quelle pecche che, secondo il sottoscritto, inficeranno sull’esperienza finale ricollegandosi a quelli che erano i problemi più pesanti e profondi della scorsa produzione, lasciando al giocatore sicuramente una bella storia ma non senza un certo grado di insoddisfazione durante le varie run. La strada è quella giusta e il prossimo terzo racconto di otto annunciati dagli sviluppatori, potrebbe essere il punto d’arrivo e apice per il futuro dell’antologia.