Il Talento del Calabrone Recensione: un pugno allo stomaco

Il Talento del Calabrone

Da due giorni fisso la pagina bianca su cui si suppone debba scrivere una recensione senza sapere come iniziare. Da due giorni penso al film che devo recensire cercando un piccolo spunto, un punto di partenza dal quale iniziare a costruire. Per trovarlo ho anche rivisto il film. Altre due volte. E tuttavia sono ancora fermo qui. La pagina bianca che lentamente comincia a ricoprirsi di parole, ma faticosamente, con un ritmo spezzato. Perché Il Talento del Calabrone, questo atteso lungometraggio scritto e diretto da Giacomo Cimini, un regista italiano finora noto per il corto sci-fi del 2014 The Nostalgist, è un film che colpisce. E non è un eufemismo. Colpisce in senso fisico, viscerale, come un pugno allo stomaco ben assestato, di quelli che ti svuotano i polmoni e ti fanno perdere il fiato. Ed è un film di cui è difficile parlare. Perché il suo significato è nascosto nelle pieghe della trama, si disvela lentamente mentre il filo si dipana, ci si svela poco a poco in un turbine di sentimenti che ci fa rimanere attaccati allo schermo, fissi, tesi in una tensione che è psicologica sì, ma anche e soprattutto fisica.

E la cosa incredibile, che costituisce però il vero valore aggiunto della pellicola, è che questa tensione la ottiene senza violenza, senza sangue, in modo sottile, subliminale. Non ci dà nemmeno la possibilità di acorgercene: assorbiti, persi nelle scene, ci ritroveremo all’improvviso con il collo in tensione, i muscoli induriti, le dita contratte. Quando è successo? In quale momento il nostro corpo è diventato una corda di violino,o meglio, una corda di violoncello? Non ve lo saprei dire, non ve lo so spiegare. Succede, e basta. E allora andiamo a cercare di scoprire insieme questo film che, dopo essere stato rimandato lo scorso marzo, ha finalmente visto la luce su Amazon Prime Video.

Il Talento del Calabrone: terrore in musica

Steph è un dj di successo famoso in tutta Italia, con un programma radiofonico seguitissimo che va in onda da uno spettacolare studio milanese che domina sulla città e una carriera in continua ascesa. Tutto cambia però la notte in cui Steph, durante il suo programma, riceve la chiamata di Carlo, un uomo che annuncia in diretta di volersi suicidare facendosi esplodere mentre gira in auto per Milano. Carlo vuole che il dj lo intrattenga. Mentre il tenente colonnello dei Carabinieri Rosa Amedei indaga su di lui, comincia ad apparire evidente che il piano di Carlo sia molto più complesso di quanto l’uomo non voglia mostrare.

Il Talento del Calabrone è un film giocato sui contrasti a tanti livelli diversi. Non solo l’opposizione pura e semplice tra i due protagonisti, ma anche (o forse soprattutto) opposizione generazionale e opposizione, se vogliamo, musicale. Nella primissima parte del film Steph si prende tutta la scena, portando su schermo un protagonista che è odioso a pelle, il classico VIP montato che si crede più importante, più intelligente, più bravo di quanto non sia davvero, circondato da adulatori e opportunisti, insomma, il tipico personaggio che prenderesti a schiaffi per puro principio. Il tutto col sottofondo di una musica moderna, commerciale, quella che invade ogni giorno le nostre radio, che popola le nostre giornate. La telefonata e l’entrata in scena di Carlo cambiano radicalmente la scena, la ribaltano, inserendo un personaggio metodico, intellettuale, raffinato anche, eppure vagamente inquietante in tanti piccoli particolari, dal tono della voce agli scatti d’umore, dalle azioni freddamente calcolate fino al modo in cui pronuncia “il buon Ludwig van Beethoven“, quasi come un Alexandre de Large di kubrickiana memoria. Le note della musica classica sottolineano questi momenti con una drammaticità che nessuna composizione moderna saprebbe raggiungere, con una potenza espressiva che non è propria di nessuna parola.

Il Talento del Calabrone non perde la possibilità di analizzare il contrasto generazionale, non limitandolo ai soli protagonisti e anzi estendendolo a tutti i personaggi minori che ruotano intorno a questa vicenda drammatica. Si tratta forse di una visione un po’ boomer della faccenda, con i dipendenti della radio, più giovani, più social, che anche nei momenti di maggior tensione pensano ai like, ai follow, agli ascolti, ai trend topics, e dall’altra parte le forze dell’ordine, più anziane, mature, concentrate sui rischi. Spaventate dalle possibili conseguenze e dunque tesissime. Probabilmente si tratta di una posizione troppo semplicistica, ma non si può liquidare la questione con il marchio d’infamia della polemica boomer, senza guardare in faccia la realtà. E la realtà ci dice che una desensibilizzazione alla violenza c’è, che una mancanza d’attenzione verso l’altro è una delle drammatiche chiavi di lettura del nostro tempo. Il primo colpo allo stomaco il film ce lo ha già assestato.

Due film in uno solo

Il Talento del Calabrone

Il Talento del Calabrone è come una strana e insolita medaglia. Le medaglie, si sa, hanno due facce, diversa l’una dall’altra, ma composte dello stesso metallo, e quindi, nella sostanza, con almeno un elemento uguale. La medaglia che è questo film invece non solo ha due facce diverse, ma è anche composta di due metalli diversi, che possono essere distinti in modo molto chiaro. C’è un film con Sergio Castellitto e c’è un film senza Sergio Castellitto.

Nei momenti in cui Castellitto, che interpreta il misterioso Carlo, è in scena questo film ci mostra la sua prima faccia. Profondo, introspettivo, intrigante, grazie anche a una prestazione d’attore impressionante e sentita, degna di un nome di quel calibro. Il film “con Sergio Castellitto” è coinvolgente e pieno, impetuoso, suscita emozioni forti e vere. Poi c’è il film “senza Sergio Castellitto”. E qui Il Talento del Calabrone cambia faccia, mostrando al pubblico un metallo meno prezioso, più opaco. Perché quando Castellitto non è in scena Anna Foglietta (una non convincentissima tenente colonnello Rosa Amedei), ma soprattutto Lorenzo Richelmy (che interpreta il dj Steph, senza cognome, neanche fosse la Penny di The Big Bang Theory) sembrano orfani, e le scene si trasformano in un surrogato di film d’azione/thriller americano di serie B, pieno di cliché e stereotipi talmente tanto ripeuti da essere ormai stantii. Sembra una fusione tra una delle mille puntate quasi tutte uguali di Squadra Speciale Cobra 11 e l’ennesimo episodio di CSI, tanto che ci si aspetterebbe quasi di girare l’angolo e incontrare un Horatio Kane selvatico che inforca gli occhiali da sole pronunciando una battuta sagace e cinica. Ci sono scene con un sacco di machismo e testosterone non necessario, incomprensibili in un film che la tensione la genera principalmente con parole, musica e sguardi. Lo stesso personaggio della Foglietta estrae immotivatamente la pistola almeno due o tre volte, come se ci fosse bisogno dell’arma per farne comprendere l’autorità.

Proprio la Foglietta e la sua Rosa Amedei sembrano essere il lato debole di questo film, soffrendo probabilmente di una sceneggiatura che limita, comprime, non approfondisce mai, limitandosi a vaghi accenni. Quanto più interessante sarebbe potuto essere questo personaggio se, invece di farle sfoderare la pistola a caso, si fosse dedicato più tempo al doppio ruolo di madre e donna in carriera o all’ansia di non riuscire a contattare i suoi cari. Nel tentativo di scimmiottare un personaggio da fiction americana si finisce per penalizzare un ruolo che, vista l’attrice scelta, poteva e doveva dare molto di più.

Chi sorprende in positivo è Lorenzo Richelmy, un attore che io ricordavo solo per l’ormai antico ruolo nella serie I Liceali, e che dimostra di sapersi calare nei panni di un personaggio difficile al di là delle semplicistiche prime impressioni. La sua evoluzione (che poi è una presa di coscienza) nel corso del film, è parte integrante del secondo pugno allo stomaco che il film ci assesta.

Chi non delude mai invece è Milano. In un film giocato sull’alternanza di due ambienti chiusi, claustrofobici e ansiogeni, le meravigliose panoramiche sui palazzi e le strade illuminate sono boccate d’aria necessarie che ci regalano la visione di una città moderna, internazionale, bella quanto New York o Tokyo, e anche di più.

Sguardi

Il Talento del Calabrone

Verso la fine della pellicola c’è una lunga scena nella quale la vicenda si scioglie e il significato del film emerge, come una catarsi definitiva, in tutta la sua potenza assoluta, in tutta la sua importanza cardinale. C’è un dialogo in questa scena, un dialogo che da solo basterebbe a far venire la pelle d’oca, eppure non è affatto la parte più importante. In effetti la scena potrebbe benissimo essere muta, con soltanto la musica a sottolineare la potenza degli occhi dei due protagonisti. La regia praticamente perfetta indugia sui volti di Steph e Carlo, distrutto, devastato il primo, lo sguardo bagnato di lacrime, vuoto, annullato. Rassegnato invece, triste il secondo, che sa che tutto sta per finire, che deve infine rivelare la verità. In questo momento tutto è giocato sugli sguardi, sulla loro potenza, su quello che gli occhi sanno comunicare. E c’è un momento preciso, nel quale Carlo, con quegli occhi scuri e tristi, guarda in macchina, senza in realtà guardarla. Guarda fisso davanti a sé, ma in realtà guarda noi. E in quello sguardo, in quegli occhi intensi che fissano e dilaniano l’anima dello spettatore, il pugno allo stomaco arriva, forte, preciso, devastante da togliere il fiato.

Il Talento del Calabrone è un film strano. Strano perché sembra avere due anime, strano perché per ogni parte costruita meravigliosamente c’è anche una sbavatura che lo appesantisce, che lo limita, con alcune scene che hanno davvero l’imbarazzante aspetto della parodia di un film d’azione. Strano per la scelta di “inquinare” una costruzione drammatica e thriller praticamente perfetta con innecessarie, immotivate esibizioni di forza e violenza. Un film con due volti, sostenuto e portato avanti da un Sergio Castellitto magistrale, ma che ci mostra anche tante occasioni sprecate. Un film che non riesce sempre a evitare di cadere nel cliché. Eppure ci sono dei momenti così belli, profondi e intensi da renderlo un titolo irrinunciabile. Un film che non potete non vedere. Con la consapevolezza che quel pugno allo stomaco comunque arriverà.