L’Attacco dei Giganti è una serie costruita per la maggior parte di momenti tristi. Se qualcuno si mettesse a fare un conto dei minuti precisi durante i quali i protagonisti piangono, soffrono, gridano o subiscono un tradimento, ci si accorgerebbe che nel corso dell’opera di Hajime Isayama questi momenti superano di gran lunga anche i duelli, i combattimenti e gli scontri tipici di un anime shonen. E del resto l’autore aveva dato un’indicazione e una direzione precisa alla sua opera a partire già dalla primissima puntata, quando ci aveva messi di fronte a scene di una durezza quasi indigeribile, lasciandoci con un groppo alla gola e lacrime a stento trattenute. E a partire da quel doloroso momento la serie è andata avanti seguendo questo film rouge di dolore e perdita, mettendo i fan continuamente di fronte alla paura, al terrore, alle grida disperate che non potevano far altro che generare commozione. La morte di Marco, quella dei membri della squadra di Levi, le grida imploranti e inumane di Mike Zacharias prima di essere smembrato dai Giganti, le preghiere dei soldati caduti a Castel Utgard sono tutti momenti dilanianti per i fan, che generano un’empatia dolorosa, che portano quasi sull’orlo delle lacrime.
Il momento più devastante dell’intera serie però è probabilmente quello del secondo episodio della seconda stagione. Quando Sasha, tornata a casa nel suo villaggio per avvertire di un possibile attacco dei Giganti, trova le case devastate e una bambina che in stato di shock non riesce a smettere di guardare la madre che viene lentamente divorata da un Gigante. È un momento straziante. Il silenzio irreale, l’assenza di grida, il solo rumore, ossessivo e nauseante, della masticazione non fanno che aumentare la sensazione fisica di disgusto e terrore. Anche per gli standard de L’Attacco dei Giganti si trattava di una scena enormemente forte e cruda. Tutti sappiamo come sia andata a finire quella scena, come Sasha abbia trovato il coraggio di salvare quella bambina. Ma forse nessuno avrebbe mai pensato di poterla rincontrare.
L’Attacco dei Giganti: “cos’ha fatto mia madre?”
Dopo i flashback che hanno caratterizzato il nono e il decimo episodio, riportandoci all’origine delle scelte di Eren e del piano perverso e sottile di Zeke, questa nuova puntata de L’Attacco dei Giganti ci fa ritrovare due personaggi che rischiavamo di dimenticare. Gabi e Falco, ancora rinchiusi in una prigione su Paradis, riescono a evadere grazie a un piano della giovane ragazza. Si tratta di due personaggi interessantissimi, la cui caratterizzazione si sta approfondendo sempre più, mano a mano che passano gli episodi, andando in due direzioni completamente opposte, ma già dal principio intuibili. Gabi è la creazione perfetta di Marley, la Guerriera così completamente accecata d’odio da non riuscire ad accettare la realtà che gli eldiani non siano tutti dei demoni, che siano persone come lei e i suoi cari. Talmente incapace di staccarsi da quel modo di pensare e di vedere il mondo da non voler rinunciare alla fascia marleyiana che la identifica come eldiana (anche se “buona”), il segno di una oppressione, di un razzismo violento che ha segnato e condizionato tutta la sua vita. Gabi è il frutto di un potente condizionamento mentale, pienamente riuscito.
Falco è su un polo diametralmente opposto. Gentile ed empatico, comprende già da parecchie puntate che la storia che gli è stata raccontata di un mondo fatto di bianchi e neri, di buoni e cattivi, è una menzogna. Riesce a vedere il grigio, Falco, le somiglianze oltre le differenze, i piccoli gesti di gentilezza in un carceriere che si era sinceramente preoccupato per la salute della piccolo Gabi, finendo solo per essere ripagato con la morte, brutale e terribile. Falco ha fatto sue, forse inconsciamente, quelle parole che ha sentito pronunciare a Eren davanti a un Reiner prostrato: “io sono come te“.
Ed è a questo punto che, come una bionda fata dei boschi, emerge la figura di Kaya. Inizialmente è irriconoscibile, con i lunghi capelli al vento, ma quegli occhi dall’espressione vacua e vuota sono un segno. È Kaya a condurre i due giovani marleyiani a casa dei genitori di Sasha (una perversa coincidenza forse, o più probabilmente una tappa obbligatoria, l’inizio di un necessario percorso di consapevolezza, che Falco ha già intrapreso e Gabi deve iniziare ad accettare, ma anche di espiazione). La benevolenza gentile dei genitori di Sasha è disarmante, e due degli orfani eldiani affidati alle loro cure hanno persino dei tratti vagamente simili a quelli di Zofia e Udo, i due amici di Gabi e Falco morti durante l’attacco a Liberio. Tutto per sottolineare quella somiglianza di base, quell’umanità comune che lega tutti loro, al di là dell’essere o meno eldiani.
Per assurdo lo stratagemma di fingersi due orfani smarriti, che dà anche il nome alla puntata, serve a pochissimo, se non a nulla. Per Kaya quei due ragazzini sono come libri aperti. In una scena che pare tratta dalla più antica commedia degli errori (nonostante i contenuti decisamente truci della conversazione), Falco e Gabi si accorgono con qualche attimo di ritardo che Kaya sa di loro e di Marley, eppure non li sta tradendo. Ed è per questo che i due la seguono nel villaggio diroccato dove quattro anni prima si è consumata la scena più cruda e insopportabile de L’Attacco dei Giganti. Sentir raccontare quegli eventi dalla viva voce di Kaya fa un male fisico, è un dolore bruciante, lacerante. In una puntata che sarebbe pur ricca di altri, tantissimi, spunti, la ragazzina finisce per prendersi la scena con le sue domande che hanno il sapore dell’ingenuità, ma che non potrebbero essere più vere, intense, sentite.
Perché, vuole sapere Kaya, perché mia madre è morta? Perché è stata mangiata da un Gigante? Una domanda che richiama ancora il dialogo tra Eren e Reiner. Kaya ha bisogno di un motivo. Di un motivo vero però. E quando Gabi le propina la Vulgata strumentalizzata di Marley, delle migliaia di anni di violenze e soprusi degli eldiani, la giovane ragazza non può che risponderle che sua madre non ha mai fatto del male a nessuno, che è nata su quell’isola, che non ha fatto nulla di ciò che sta dicendo Gabi. Il dialogo è un crescendo di tensione, in cui l’unica a infervorarsi (almeno all’inizio) è Gabi, che vede respinta la sua logica da asilo, quel “ve lo meritate perché i vostri antenati erano cattivi”. Kaya non accetta questa visione: per lei le persone sono responsabili dei propri atti e di quelli soltanto. Se i responsabili sono altri, si chiede la giovane, perché ci odiate tutti? Perché dobbiamo pagare tutti? Gabi non ha risposte soddisfacenti per lei. Ha soltanto una fideistica e insufficiente storiella inculcata col lavaggio del cervello. Ed è per questo che infine anche Kaya esplode, si emoziona, afferra la ragazza per le spalle e grida, piange. Tutto ciò che quel giorno, di fronte alla madre smembrata da un Gigante, non aveva fatto.
La risposta arriva da Falco, come al solito più empatico, capace di capire i sentimenti di chi ha di fronte. Falco non le propina una storia preconfezionata di colpevolizzazione. Falco spiega, con parole semplici e tono calmo, anche se triste. Era tutto ciò di cui Kaya aveva bisogno, tanto che quelle scuse finali sembrano quasi eccessive, di troppo.
Una cosa però è certa: anche se l’animazione e gli aspetti tecnici non sono tutti assolutamente perfetti, questa scena è una delle più profonde, vere e toccanti de L’Attacco dei Giganti, sicuramente una di quelle destinate a rimanere più impresse.
Un folle predicatore
Se Kaya è capace di conquistarsi il centro di questo undicesimo episodio, va comunque ammesso che ci sono moltissimi altri spunti, a partire dall’incontro tra Dahlis Zachary e l’ambasciatrice Kiyomi Azumabito di Hizuru, che è tornata su Paradis con il modello di un aereo alimentato dallo stesso carburante dei dispositivi di manovra tridimensionale, per arrivare alla reazione della popolazione alle notizie su Eren. Per la prima volta ci viene restituita l’immagine di una Hange Zoe politica, non del tutto sincera, che non vuole condividere le informazioni con le persone. Un’evoluzione che si consuma tutta nel brevissimo dialogo tra lei e Flegel Reeves, il mercante che per primo le ha dato fiducia, quando il Corpo di Ricerca stava per essere cancellato. Se è vero che con Reeves Hange è sempre stata sincera, è anche significativo notare come questa volta non abbia risposto direttamente alla sua domanda: “Guardami negli occhi e dimmi che ci possiamo fidare”. Hange non fa nessuna delle due cose, perché è perfettamente consapevole che mentirebbe.
Ma soprattutto è interessante notare come, dopo i flashback degli scorsi episodi, questa undicesima puntata abbia utilizzato uno stile diverso, tratto dai crime e dai gialli per ricostruire l’ultimo passaggio di questi quattro anni di timeskip. I contatti tra Yelena e Floch, che forse ne è stato incantato, forse influenzato, e che ha fatto da tramite tra la donna ed Eren. Proprio Floch, quel personaggio così fastidioso e odioso, improvvisamente ha assunto i toni messianici ed escatologici di un predicatore religioso folle. Insieme a un gruppo di nuove reclute sta lavorando attivamente per un fine che sembra essere diverso da quello dell’esercito, quasi che guidasse una setta indipendente. Le sue espressioni, le sue parole sono spaventose, perché trasudano di un carisma che non gli conosciamo (e che infatti probabilmente non è suo). Insomma, Floch e i suoi sono marionette, mossi da invisibili fili per un fine ancora non noto. Un fine che Hange dovrà scoprire, prima che Floch completi la sua trasformazione in Charles Manson.
Scritto nel passato
C’è un aspetto di questa puntata che dura soltanto pochissimi secondi, ma che va analizzato con attenzione. I brevissimi flash di Mikasa, che ricorda a spezzoni il salvataggio da parte di Eren quando i due erano appena dei bambini, non sono lì per caso. Si tratta di un’altra citazione, stavolta al sesto episodio della prima stagione. Già all’epoca si era parlato di un episodio estremamente crudo e con una nota di fondo “sbagliata”. Non sembrava normale che un ragazzino facesse quelle cose, che potesse uccidere a sangue freddo due uomini e non pensarci più subito dopo.
L’immagine di Eren come un disadattato serial killer è scomparsa dopo qualche episodio de L’Attacco dei Giganti, ma Mikasa, che la sciarpa che le ricorda quella notte la indossa ancora al collo, non pu dimenticare. Nel gesto di fedeltà quasi invasato di Louise (che non è più fedeltà all’esercito o a Paradis, ma soltanto a Eren) Mikasa avverte il sintomo di qualcosa di terribile. Rivede l’Eren di quella notte, l’unica volta in cui è stato lui a proteggerla e non il contrario. Rivede la follia omicida negli occhi dell’amico, del ragazzo che (in fondo lo sappiamo tutti) ama. E probabilmente inizia a capire. Inizia a pensare che il futuro possa essere già presente nel passato. Che quell’espressione stia per tornare sul volto di Eren.
Con questo episodio il finale della serie si avvicina sempre di più. Anche se è improbabile che questa Final Season riesca ad adattare l’intero ultimo arco narrativo de L’Attacco dei Giganti nelle cinque puntate rimaste, per il momento bisogna soltanto aspettare novità in arrivo da studio MAPPA, che con questo episodio si è mantenuto su un buon standard di animazione, anche se non si può gridare al capolavoro. Una piccola pecca sono i fondali in CGI di alcune scene che staccano un po’ troppo rispetto ai personaggi e non si amalgamano bene alla scena. Per il resto però, l’intensità trasmessa dai disegni, e in particolare dai primi piani, riesce sempre a coinvolgere e a far dimenticare questi piccoli difetti.
Vi ricordiamo che la quarta stagione de L’Attacco dei Giganti è disponibile ogni martedì in simuldub su VVVVID e il venerdì successivo con il doppiaggio in italiano su Amazon Prime Video!