Fin dall’inizio della loro storia, gli esseri umani hanno percepito una forte connessione con qualcosa che andava al di là della mera realtà materiale e sensibile che si trovavano davanti tutti i giorni. La certezza dell’esistenza di un mondo spirituale, la convinzione che esso potesse avere delle forti connessioni con quello materiale, hanno sempre accompagnato i popoli e le culture nel corso dei secoli. Nelle società più antiche il ruolo di intermediari tra il mondo materiale e queste forze spirituali (che potevano essere benevole, ma anche maligne) era affidato allo sciamano, una figura di grande potere e autorità, un uomo in grado di “trasformarsi” e di trascendere il piano umano, per innalzarsi, o abbassarsi, in mondi da cui generalmente gli uomini sono esclusi. Quello dello sciamanesimo è dunque un complesso fenomeno religioso e antropologico, studiato da orde di grandissimi accademici, ma è anche un argomento affascinante per la cultura di massa, come testimonia l’ondata di discipline sciamaniche new age diffusesi all’inizio degli anni 2000. Era inevitabile dunque che un argomento così intrigante non attirasse l’attenzione di un mangaka come Hiroyuki Takei, che sul finire degli anni ’90 era l’astro nascente di Weekly Shonen Jump e che proprio agli sciamani ha dedicato il suo capolavoro: Shaman King.
Opera dalla storia editoriale travagliata, Shaman King è stato serializzato tra il 1998 e il 2004, concludendosi con un finale mozzo e insoddisfacente per i fan. Rieditata nel 2008 con 16 capitoli aggiuntivi, l’opera è stata poi rivista e ripubblicata ancora una volta da Kodansha nel 2018. Una confusione di cui risentì anche il primo adattamento animato della serie, prodotto mentre ancora Takei lavorava al manga, nel 2001. Dopo essere rimasto fedele ai primi 90 capitoli circa infatti, l’anime di Shaman King, sembra su richiesta diretta di Shueisha, iniziò a seguire una trama completamente diversa e a se stante (un po’ la stessa cosa accaduta alla prima serie di Fullmetal Alchemist). Anche Takei, che inizialmente partecipava attivamente alla produzione della versione animata, si sfilò progressivamente dal progetto, che si concluse dopo 64 episodi, senza un vero finale.
Proprio per questo l’emozione dei fan è arrivata a livelli da capogiro quando lo studio d’animazione Bridge ha annunciato di essere pronto al reboot di Shaman King, una nuova serie anime che avrebbe riportato in scena le avventure di Yoh Asakura e del suo gruppo di impavidi compagni durante la loro lotta per diventare lo Shaman King. Dopo l’esordio in Giappone (datato 1 aprile 2021), la serie è finalmente arrivata anche nel resto del mondo grazie a Netflix, che l’ha resa disponibile dal 9 agosto. Dunque andiamo a scoprire com’è questa nuova versione del capolavoro di Hiroyuki Takei.
Diventerò Hokag… il Re dei Pirat… Shaman King!
Yoh Asakura è un giovanissimo sciamano, erede di una famiglia di antico lignaggio, che si trasferisce a Tokyo per terminare la sua formazione. Qui farà la conoscenza del suo coetaneo Manta Oyamada, in grado di vedere i fantasmi, ma soprattutto dello spirito del potente samurai Amidamaru, vissuto seicento anni prima. In breve Yoh verrà raggiunto da Anna Kyoyama, sciamana di grande potere e sua promessa sposa, e inizierà ad allenarsi per lo Shaman Fight, il torneo che si svolge ogni cinquecento anni per decretare chi sarà il prossimo Shaman King, lo sciamano in grado di comunicare con il Grande Spirito e portare pace e prosperità al mondo. Ma molti oscuri nemici attendono Yoh lungo il suo cammino.
Che Shaman King appartenga a quel filone di manga e anime che vanno sotto il nome di shonen (e che sono quindi indirizzati a un target di adolescenti) è abbastanza chiaro fin dall’inizio, ma fin da subito è sorprendente quanto l’opera di Takei sia aderente ai canoni del genere. Sembra quasi che l’autore abbia spuntato tutta una serie di voci da una sua lista mentale:
- protagonista ingenuo e un po’ naif, c’è;
- antieroe che inizia come nemesi ma poi diventa amico del protagonista, c’è;
- waifu gravemente minorenne, c’è;
- uno o due personaggi con capigliature improbabili che fanno da espendiente comico, ci sono;
- protagonisti che hanno “un sogno”, ci sono;
- villain cattivissimo con legami misteriosi con il protagonista, c’è;
- lunghi flashback strappalacrime, ci sono;
- torneo all’ultimo sangue in cui i partecipanti devono scannarsi, c’è…
Non solo ogni singolo personaggio di Shaman King può essere incasellato in un ruolo standard, ma ha anche la stessa personalità di protagonisti di altre opere: Yoh è praticamente una fusione di Goku, Luffy e Naruto, Ren è una versione meno pompata (e con una pettinatura ancor più discutibile) di Vegeta, Manta è Crillin con i capelli, la coppia composta da Ryu e Horo-Horo è l’espediente comico di base della serie, mentre Anna è la tipica ragazza anime tutta reazioni esagerate e fiducia nel protagonista che sarà in grado di salvare il mondo (anche se le va riconosciuto del carattere). A concludere il quadro c’è anche il fatto che, anche a livello di design, il gruppetto dei nostri sciamani ricorda, grossomodo, il gruppo di Gon in Hunter x Hunter.
Insomma Shaman King si propone come una sorta di manuale per la scrittura di uno shonen base, senza veri guizzi o personaggi indimenticabili. Persino gli spiriti, che potrebbero essere il vero punto di forza della serie, e che anzi dovrebbero essere il cardine della serie, finiscono quasi per defilarsi: i flashback che li riguardano sono prevedibili, sanno di già visto, di vecchio, di standard. Un problema che, ovviamente, è dovuto anche al fatto che l’anime di Shaman King è comunque ispirato a un manga scritto tra la fine degli anni ’90 e l’inizio dei 2000. In un certo senso, Takei è stato tra coloro che hanno contribuito a creare lo standard degli shonen. In fondo, se certi stereotipi esistono, lo dobbiamo a lui.
Shaman King: veloce… veloce… velocissimo…
Bridge ha annunciato che questa nuova serie di Shaman King coprirà l’intera vicenda del manga di Takei in 52 episodi totali. In Giappone ne sono usciti, ad oggi, 17, a cadenza settimanale, mentre per l’Occidente, Netflix ha optato (e su questa scelta torneremo) per rilasciare la serie in pacchetti da 13 episodi alla volta, auspicando dunque di concluderla in quattro stagioni.
Ad ogni modo la scelta di comprimere l’intero manga in 52 puntate, quando la prima serie ne contava 64 per una versione non del tutto completa è sembrata un po’ strana, e alla fine ha avuto un effetto deleterio sull’anime, che corre a perdifiato e precipitosamente lungo la sua trama, dedicando davvero poco spazio allo sviluppo dei personaggi, che pertanto maturano e cambiano in modo davvero troppo rapido, anche nel giro di una stessa puntata (esempi lampanti sono Jun Tao, o lo spirito del brigante Tokageroh).
Tra l’altro questo andamento velocissimo degli episodi non rende un’idea precisa del tempo che passa tra gli eventi. Anche se dal primo incontro di Yoh e Manta e la partenza dello sciamano per lo Shaman Fight devono essere passati almeno dei mesi, sembra quasi che tutto avvenga in una manciata di giorni. Tutto questo perché in questa prima stagione di 13 episodi bisognava arrivare a un punto di svolta importante, che permettesse di tenere i fan sulle spine e in attesa della prossima tranche della serie, che dovrebbe arrivare tra 3/4 mesi circa. La fretta però, si sa, è cattiva consigliera.
Di questa rapidità infatti risente anche l’atmosfera generale dell’opera, che sembra sempre fin troppo leggera, quasi burlesca, anche quando vengono portati in scena momenti che dovrebbero essere drammatici o persino orrorifici, come la tortura di Manta ad opera di Faust VIII, o il breve arco narrativo del palazzo dei Tao. Pure in queste occasioni infatti tutto sembra sempre finire a “tarallucci e vino”, e non c’è mai un vero senso di pericolo. Almeno finché non compare Hao.
In tutto questo non c’è nemmeno lo spazio per trattare alcune delle tematiche (anche molto attuali) che l’anime sembrerebbe pure voler introdurre, come quella della tutela dell’ambiente, appena accennata da Ren (che si lamenta con toni alla Greta Thunberg dell’inquinamento nei primi episodi) e poi riproposta da Horo-Horo, col suo sogno di creare una foresta di farfaraccio. Ma il tentativo, effimero e velleitario, si conclude lì.
Shaman Fight, ma senza fight…
Shaman King, l’abbiamo detto subito, è uno shonen, e come nella migliore tradizione degli shonen è una serie in cui l’azione e gil scontri la fanno da padrone. Tutta la trama della serie, in realtà, ruota intorno al fatto che gli sciamani si affrontino, combattendo tra di loro, utilizzando le loro capacità e quelle del loro spirito guida. E sebbene nei 13 episodi della serie sia sempre previsto almeno uno scontro, paradossalmente Shaman King è un anime con pochissima azione.
La maggior parte delle battaglie non è nemmeno coreografata, ma si risolve in un paio di colpi al massimo. Il resto del tempo i protagonisti lo passano a pronunciare spacconate, gridare in modo inconsulto, fare spiegoni prolissi e non richiesti dei loro poteri, o raccontare parti più o meno dolorose del loro passato in flashback intrisi di malinconia. Chiariamoci, tantissimi duelli anime vanno in questo modo, ma è anche vero che lo spazio che viene dedicato all’azione pura è proporzionale a quello riservato alle chiacchiere. In Shaman King invece la sproporzione è evidente, con il risultato ironico che un anime basato su un torneo all’ultimo sangue presenti un solo scontro degno di nota (nello specifico il secondo combattimento tra Yoh e Ren).
Su questo piano si spera che le cose possano migliorare con l’introduzione del vero e proprio villain della serie, Hao, che ha fatto la sua comparsa negli ultimi episodi e che sicuramente sarà grande protagonista a partire dalla prossima stagione.
Nel complesso, Shaman King è una buona opera d’intrattenimento, soprattutto per i fan sfegatati della serie di Takei. A livello tecnico, i disegni, le animazioni e il sonoro sono di livello assoluto, e Bridge sta facendo un ottimo lavoro. Qualche dubbio rimane sulla caratterizzazione, fin troppo stereotipata, dei personaggi e sulla loro evoluzione frettolosa e a tratti forzata. Insomma, un’anime con un retrogusto di già visto, un reboot arrivato forse troppo tardi per ottenere un successo totale, ma comunque godibile. Le premesse in vista della seconda stagione però paiono buone: l’arrivo di Hao e del suo gruppo potrebbe cambiare le carte in tavola: come dice sempre Yoh “Andrà tutto bene!”.