Giocando a Diablo II Resurrected, tanto da solo quanto in occasione di eventi multiplayer come quello di lancio, è stato praticamente impossibile togliermi dalla testa il pensiero che quello davanti ai miei occhi era, di fatto e tanto nel bene quanto nel male, Diablo II rivestito da una scintillante patina moderna, che sovrappone al vecchio ma ancora gagliardo motore grafico una nuova rilettura visiva in chiave contemporanea e tridimensionale. Sebbene la stessa cosa si possa dire di tante altre remaster, nel caso in oggetto Blizzard ha voluto farne quasi un vanto, una sorta di lettera di intenti con la quale ha dichiarato di non voler rimaneggiare in alcun modo l’esperienza confezionata vent’anni addietro, salvo qualche sfaccettatura che lo riporta un po’ al passo con i moderni ARPG come un forziere condiviso per tutti i nostri eroi e la possibilità di utilizzare un pad, che faranno sentire subito a casa quanti hanno passato un bel po’ di tempo a massacrare demoni su Diablo III per console.
Per i pochi che non lo sapessero, Diablo II è praticamente il titolo che ha standardizzato l’intero sottogenere dei dungeon-crawler, basandosi sulle robuste fondamenta del capostipite per poi lasciare i giocatori liberi di accumulare livelli e bottino a volontà. Benché il periodo in cui regnava incontrastato sulla pletora di altri rivali che tentavano di scimmiottarne la formula sia ormai giunto al termine, e non me ne voglia lo zoccolo duro di appassionati che continua ancora oggi a scalarne le classifiche stagionali, anche se non l’avete sperimentato in prima persona ci sono ottime probabilità che abbiate provato diversi giochi realizzati sotto la sua diretta influenza: per intenderci, senza Diablo II non ci sarebbe nessun Borderlands, Destiny o The Division. In buona sostanza, stiamo parlando di un autentico pezzo di storia videoludica. All’epoca della sua uscita, nel giugno del 2000, le connessioni casalinghe veloci erano ancora appannaggio di pochi, dunque ricordo intere nottate post-lavorative trascorse a raccogliere orecchie (i trofei lasciati cadere dagli avversari sconfitti in PvP) e vantarmi nella chat globale sfruttando la rete dell’ufficio (con il beneplacito del mio capo), qualche volta fino alle prime ore del mattino dopo. Bei tempi.
Diablo II Resurrected: quando egli mi chiamò, fui costretto a seguirlo
In Diablo II Resurrected interpreteremo un eroe sulle tracce del Viandante Oscuro, il protagonista di Diablo che il Signore del Terrore ha posseduto dopo esserne stato sconfitto nelle profondità della cattedrale di Tristram. La cerca ci condurrà attraverso un certo numero di atti e regioni del mondo di Sanctuarium, affrontando orde di mostri, demoni e maligni primordiali prima di scontrarci nuovamente con Diablo nelle viscere degli Inferi. Un quinto e ultimo capitolo, legato all’espansione Lord of Destruction già inclusa in questa remaster, si svolge sulla cima innevata del monte Arreat dove contrasteremo Baal, il titolare Signore della Distruzione, e il suo tentativo di corrompere la Pietra del Mondo, l’oggetto magico più potente dell’intero creato. Il gameplay è molto semplice ed altrettanto efficace: si inizia con una sola abilità, una barra di mana per tutte le classi e un ritmo di gioco leggermente più ponderato rispetto ai titoli attuali. La sua complessità risiede più nella scelta del giusto equipaggiamento e di pochi poteri specifici piuttosto che in una moltitudine di capacità speciali sbloccate in automatico da utilizzare in combinazione, come accade in molte produzioni moderne. A questo si aggiungono una modalità multiplayer competitiva, con opzioni e contenuti davvero innovativi per allora, un’immensa rigiocabilità incentrata sulla ricchissima varietà di equipaggiamento, nonché oggetti leggendari da ricercare per molto, molto, moltissimo tempo, e si può spiegare perché la sua popolarità sia elevatissima ancora oggi.
Ma Diablo II non era un gioco perfetto, tutt’altro: il design dell’alberatura di talenti all’inizio era catastrofico, senza nemmeno la possibilità di riassegnare i punti (aggiunta poi in seguito), mentre i livelli di difficoltà più alti, Incubo e soprattutto Inferno, risultavano praticamente inaffrontabili per i giocatori che tentavano di approcciarli senza un’opportuna preparazione, perché l’assortimento di immunità in dotazione ai mostri potenziati, fin dal primo atto, era tale da rendere alcune classi quasi pleonastiche. Giocare un’Incantatrice specializzata in magie di fuoco o un Negromante con una predilezione per i danni da veleno in single-player potrebbe provocare crisi isteriche incontrollate quando la maggior parte dei nemici è protetta da questi elementi. Inoltre, il multiplayer era anche funestato da un gran numero di cheater, incoraggiati da una serie di exploit e di bug grossomodo noti che non sono mai stati risolti, o quantomeno non del tutto. Il compito più arduo di questa riedizione sarebbe perciò stato quello di trovare il compromesso migliore tra memoria storica, innovazione e modifiche sostanziali, e da questo punto di vista il lavoro svolto è stato perlopiù conservativo, con un occhio rivolto ad una piccola serie di accorgimenti mirati ad ottimizzare l’esperienza complessiva.
Adesso dormi. Ci rimetteremo in viaggio all’alba!
Come già anticipato, la prima e più grande attrattiva di Diablo II Resurrected è il nuovo motore grafico in 3D, per il quale non posso fare che i miei sentitissimi complimenti al team di sviluppo, poiché il risultato finale sembra più un remake moderno che una semplice “skin” aggiuntiva. È comunque possibile tornare alla visualizzazione dei modelli e degli ambienti pre-renderizzati con la semplice pressione del tasto, giusto per non scontentare nessuno. L’atmosfera generale è molto ben preservata: inquietante, oscura e sanguinosa, una riproduzione praticamente perfetta della visione artistica originale. I nuovi modelli dei personaggi invece non mi hanno convinto del tutto, perché si discostano in maniera poco efficace sia dai concept di base che dagli archetipi fantasy dei rispettivi ruoli, ma si tratta di semplici gusti personali e l’inquadratura più ampia su schermi e monitor attuali aiuta a non perdersi troppo nei dettagli “sgradevoli”. Da sottolineare poi che i filmati introduttivi di ciascun atto sono stati completamente rifatti con lo standard qualitativo cui Blizzard ci ha abituati negli ultimi anni, trasformandoli in un’autentica gioia per gli occhi.
La novità più grande in termini di gameplay riguarda la suddetta implementazione del controller, un passaggio obbligatorio per la conversione su console, e tanto il controllo diretto del nostro avatar quanto il mapping delle varie abilità sui pulsanti disponibili sono comodità che compensano a sufficienza una mira meno precisa e il disagio di dover navigare inventario e menù con un cursore simulato. Tuttavia, la classica combinazione mouse e tastiera sfrutta ancora la vecchia interfaccia, nella quale azioni e abilità vanno prima assegnati ai tasti funzione e poi attivati con un clic esplicito del dispositivo di puntamento: confesso che questa decisione mi ha lasciato abbastanza perplesso, dato che in Diablo III (come pure in qualsiasi altro ARPG moderno) la barra multifunzione è una costante imprescindibile anche con i controlli tradizionali, dunque la sua mancanza in questa remaster sembra imputabile ai tempi di sviluppo troppo stringenti e, di conseguenza, vederla introdotta con un aggiornamento successivo potrebbe non essere un’ipotesi troppo azzardata.
Sul fronte dei bug, Vicarious Visions ne ha corretto qualcuno risparmiandone però altri piuttosto eclatanti, come il nefasto “next hit always miss” che impedisce ai personaggi di andare a segno con un qualsiasi attacco se il colpo precedente è stato interrotto. Anche in questo caso, presumo sia solo questione di tempo prima che gli update aggiustino le ulteriori magagne, con la speranza che non siano annidate troppo a fondo nel codice. Ironia della sorte, nel corso degli anni molti ritocchi e correzioni erano stati apportati dalle mod sviluppate dagli utenti che però, con l’impossibilità di giocare su server privati, non potranno essere utilizzate nella remaster. Ciò che invece non è stato proprio possibile sistemare sono alcune caratteristiche sostanziali, che ad oggi risultano per forza di cose obsolete: ad esempio, un inventario personale estremamente limitato e senza raggruppamento di oggetti identici, che costringe a continui andirivieni dai dungeon alla base e viceversa per vendere o mettere da parte il bottino e liberare spazio, oppure l’infima frequenza di drop relativa a rune ed equipaggiamento unico (si narra che certi giocatori non siano mai riusciti a trovare una singola runa Zod nemmeno dopo decenni) che all’epoca ha spinto in molti a rivolgersi ai bot o ad altri sistemi di gioco meno leciti per non dover ripetere sempre le stesse azioni all’infinito. E, a tal proposito, il misero quantitativo di cose da fare una volta raggiunti i livelli più alti potrebbe scioccare quanti sono ormai abituati ai sostanziosi contenuti disponibili per il cosiddetto end-game dei titoli odierni: a parte affrontare le versioni Uber dei boss, portare al livello 99 tutti i personaggi e farmare oggetti come se non ci fosse un domani, Diablo II Resurrected non offre nulla di neanche lontanamente paragonabile alla modalità avventura, ai varchi o alle stagioni di Diablo III, sempre per citare un parente molto prossimo, riservando queste ultime alle partite PvP multigiocatore dove i partecipanti possono dare sfoggio dei costosi set recuperati nel corso dell’avventura e puntare alla cima delle classifiche, prima che queste vengano ciclicamente resettate.
Piattaforme: Switch, PC, PS4, PS5, Xbox One, Xbox Series X|S
Sviluppatore: Vicarious Visions, Blizzard Entertainment
Publisher: Blizzard Entertainment
Diablo II Resurrected vanta uno splendido restauro estetico e un degno supporto per i controller, ma non si presenta come una rimasterizzazione pensata per il grande pubblico: il suo target principale restano i patiti del titolo originale. L’effetto nostalgia potrebbe non essere sufficiente a dimenticare la mancanza di modernità nei numerosi elementi che costituiscono l’interfaccia e il gameplay, facendogli perdere lustro nei confronti di molti altri esponenti del genere che hanno saputo reinventare e perfezionare la formula nel corso degli anni. Ad ogni modo, malgrado la sua ancora irrimediabilmente gettata nell’oceano di inizio millennio, mi sento di consigliarlo a quanti nutrono il desiderio di scoprire questo grande classico nella sua forma migliore, consci che ne verranno sicuramente stregati una volta scesi a patti con le sue meccaniche senza compromessi.