Mergate, una piccola cittadina sulla costa settentrionale dell’Inghilterra, fa da sfondo a questa storia ambientata nel 1980. Storia che vede come protagonista Hilary Small, donna di mezz’età che lavora come direttrice di sala all’Empire Cinema, il più grande multisala della zona. Non è una persona semplice Hilary, eterna insoddisfatta da una vita che non ha saputo sfruttare appieno nei suoi anni di gioventù e che ora sembra sfuggirle via sempre più veloce, giorno dopo giorno, in un tram tram inesorabile che la vede perdersi quotidianamente.
Affetta da depressione, amante del suo capo Donald Ellis – sposato e con nessuna intenzione di abbandonare il desco coniugale – e in procinto di ottenere finalmente qualcosa da quel destino che sembra remarle contro. Un giorno tra i nuovi colleghi viene assunto Stephen, un inglese di colore e di parecchio più giovane di lei, che si trova a essere spesso vittima di episodi di razzismo da parte degli skinhead della comunità.
Pur diversissimi per estrazione e ceto sociale nonché gusti ed età, tra i due nasce una relazione passionale che si consuma nell’arco di poche settimane, almeno fino a quando Hilary non ricomincia ad essere ostaggio dei propri demoni e Donald non riallaccia una relazione con una sua ex. Ma forse vi è ancora di qualcosa in serbo per loro…
Empire of Light: questione di aspettative
Una candidatura ai Golden Globe per la miglior attrice protagonista e un’altra ai prossimi Oscar per la miglior fotografia non sono certo un bottino da poco, ma indubbiamente dall’ultimo lavoro di Sam Mendes ci si attendeva qualcosa di più. Un po’ perché si aspettava il ritorno del regista britannico alle torbide atmosfere (melo)drammatiche che ci aveva regalato in alcune delle sue opere maggiori quali American Beauty (1999) e Revolutionary Road (2008), un po’ per comprendere quanto e come il suo stile graffiante fosse stato effettivamente contaminato dal franchise bondiano e dall’epopea bellica e virtuosistica di 1917.
Ecco perciò che giunti ai titoli di coda di Empire of Light, il cinefilo che si aspettava un nuovo viaggio nella mente e nell’anima di personaggi afflitti si trova parzialmente con l’amaro in bocca, deluso da una narrazione che possiede sì buoni spunti ma sembra sempre sul punto di esplodere senza poi deflagrare effettivamente, disinnescando sul nascere tutte quelle micce che pur erano presenti in fase di sceneggiatura.
Una storia romantica che vorrebbe riflettere su molteplici tematiche, a cominciare proprio dai due estremi che compongono questa love-story agli antipodi: bianca e più anziana lei, nero e giovane lui, una duplice diversità che si amalgama in un costrutto troppo annacquato per risultare anche appassionante. Non è un caso che i passaggi clou di questo legame si affidino a scene madri in serie, da quando lei viene portata via dai servizi sociali a quando lui viene brutalmente picchiato da un gruppo di mods per il colore della sua pelle. Senza l’utilizzo di questi topoi Empire of Light non troverebbe ragion d’essere e proprio il suo affidamento a queste soluzioni tanto elementari quanto scontate depotenzia sul nascere la forza della storia e dei personaggi in essa raccontati.
Cinema mon amour
D’altronde è ancora una volta l’amore per il cinema a trainare il tutto, ma se nella recente epopea spielberghiana di The Fabelmans (2022) la Settima Arte era veicolo per raccontare non solo la magia della suddetta ma anche il percorso autobiografico e catartico dell’autore stesso, in Empire of Light è uno sfondo tanto suggestivo quanto poco sfruttato, tanto che con un altro contesto sarebbe cambiato poco. Poco ma non nulla, giacché una delle scene più evocative ha luogo proprio all’interno della sala, con la cinepresa a trasmettere le immagini del memorabile Oltre il giardino (1979) con Peter Sellers e gli occhi dell’intensa Olivia Colman che si illuminano di gioia e meraviglia, istanti brevi ma densi di significato per i quali è valsa la pena attendere quasi cento minuti di visione.
Merito che Mendes deve condividere ancora una volta con il fedele direttore della fotografia Roger Deakins, che ancora una volta ha impreziosito l’impatto estetico dando vita a sequenze di sublime fascino e dal sapore quasi nostalgico: perché anche a dispetto di una certa mancanza di grinta, il film può contare comunque su un’estetica raffinata in più di un’occasione. Peccato che altrove si respiri una mondanità a tratti dozzinale, che non ci si aspetterebbe da uno come Mendes, con le emozioni che vengono esposte in maniera troppo nette e senza filtri, avare di quegli aliti introspettivi che avrebbero invece donato alle figure coinvolte non solo maggior carattere ma anche quel surplus tale da spingere il pubblico a immedesimarsi con i loro tormenti: si denota una paradossale freddezza, che tiene chi guarda distante da quanto accade in scena.
Un impero della luce che si carica, come ovvio, anche di ombre in questo eterno gioco tra il bianco e il nero che qui assume molteplici sfumature, in un incastro di dicotomie più o meno forzate che fa da sfondo al racconto. Empire of Light è un Sam Mendes minore, lontano da alcuni dei suoi capolavori passati e fin troppo avaro di emozioni, nonostante una sceneggiatura che aveva in sé potenzialità per fare scintille, rimaste inespresse nella gestione del rapporto tra i due protagonisti, apparentemente agli antipodi per età e contesto sociale e non a caso destinati a un inevitabile, dolce-amaro, naufragio. L’ennesima lettera d’amore verso il cinema da chi il cinema lo fa risulta così una missiva annacquata, varcata da scene madri suggestive ed evocative ma incapace di reggerne le ambizioni nel resto della narrazione, che si trascina per due ore tra sussulti di un romanticismo schematico e uno scavo (melo)drammatico nei demoni personali di una donna “sull’orlo di una crisi di nervi”, che tanto avrebbe confato in chiave più grottesca allo stile di Almodovar, ma che qui nonostante l’impegno di una comunque magnifica Olivia Colman rimane un bocciolo che non riesce mai a sbocciare.