Cosa si può dire ancora su Resident Evil 4 che non sia stato già detto? Come introdurre il discorso per quanti hanno iniziato a riscoprire la serie grazie agli episodi più moderni (Resident Evil 7: Biohazard e Resident Evil Village) e, magari, ai precedenti remake dei primi tre? Proviamo a partire dal principio, e da come il quarto capitolo abbia letteralmente ridimensionato il genere che il suo stesso capostipite aveva coniato: la concezione pionieristica del primo Resident Evil è difatti innegabile, come pure la popolarità raggiunta dai suoi diretti successori, ma l’influenza che il 4 ha esercitato su una categoria ben specifica di titoli d’azione a tinte horror è possibile percepirla ancora ai giorni nostri. Lanciato l’11 gennaio 2005 su Nintendo GameCube, Mikami scelse di imprimere una direzione molto diversa alla serie, e l’azzardo si rivelò vincente grazie ad un design assolutamente inusitato per l’epoca che attesta, con questo rifacimento al contempo sovversivo e tradizionalista, quanto abbia mantenuto integra la sua freschezza anche a 18 anni di distanza… o forse no?
Resident Evil 4: si mette sempre peggio…
Accantonate subito qualsivoglia perplessità: Resident Evil 4 resta il metro di paragone con cui si deve misurare ogni suo singolo erede, materiale o spirituale che sia, a partire dalle primissime battute. Qualcuno potrà addurre un’argomentazione convincente a favore di The Last of Us, ma le partite successive con quest’ultimo rivelano come Naughty Dog si assicuri che le braccia e le gambe del giocatore restino sempre all’interno della giostra sulla quale ci ha fatti salire. In questo squallido borgo ispanico, viceversa, siamo noi a guidare il dipanarsi degli eventi: sbarriamo porte, saltiamo attraverso le finestre, corriamo in giro, spariamo, prendiamo a calci cose e persone, e stavolta possiamo anche acquattarci per cogliere di sorpresa un ignaro ganado o sgattaiolare via da situazioni troppo affollate. La direzione artistica della rilettura è molto più lurida, malsana e decrepita rispetto all’originale, abbiamo da subito contezza di trovarci in un frangente che di naturale ha ben poco, e il tono da slasher grottesco e quasi beffardo viene in parte mitigato dalle medesime sfumature angosciose che hanno caratterizzato le altre riedizioni, ma Leon non perde comunque occasione per esternare la sua tipica sfrontatezza. Anche nella sua incarnazione attuale, questa esilarante fusione di sequenze scriptate e caos provocato dal giocatore non perde la capacità di sconvolgere, dal violento incontro con lo strambo e aggressivo cacciatore alla perlustrazione del fangoso retroterra, dall’occhiata al cadavere immolato del poliziotto che ci ha condotti in questo ameno villaggio al primo nemico che urla: “¡Un forastero!”, passando per l’insistente rombare della motosega fino al rintocco delle campane che inducono i ganado a posare gli attrezzi e barcollare verso il loro luogo di culto. E poi, naturalmente, quella battuta meravigliosamente assurda: “Ma dove stanno andando? Al bingo?”, invita a riprendere il meritato fiato. L’intensità dell’ordalia è tale che scoprire che si tratta di appena quindici minuti di gioco è scioccante. Sembra un momento epocale, ed è proprio così. Perché allora, visti i progressi della tecnologia e del game design da allora, non si è più visto nulla di simile?
Il lascito dell’opera di Shinji Mikami può essere considerato un semplice dato di fatto. Il suo status di produzione di enorme portata e rilevanza non è trattabile, per quanto non sia stato il pioniere per cui spesso viene spacciato. Beninteso, l’impatto che ha avuto sul panorama videoludico è incontrovertibile: la sua inquadratura da sopra le spalle è stata imitata da numerosi sparatutto in terza persona durante la successiva generazione di console, con Dead Space in particolare che deve a Capcom un sostanzioso tributo. Ma il riconoscimento più sentito è stato quello espresso da Cliff Bleszinski durante lo sviluppo di Gears of War, e infatti il gioco targato Epic sarebbe diventato il modello di riferimento del genere. Sebbene i due condividano una prospettiva comparabile, il loro approccio al combattimento non potrebbe essere più diverso: in Resident Evil 4 possiamo concederci di rado il lusso di rintanarsi dietro barriere alte fino alla vita; al contrario, le coperture vanno valutate a colpo d’occhio ed ogni singolo colpo deve essere sparato da una posizione esposta, stringendo i denti per mantenerla anche di fronte all’avanzata di una frotta di avversari, piuttosto che rannicchiarsi e sporgere ogni tanto la testa per fare fuoco prima di correre verso la prossima postazione di relativa sicurezza. Persino quando Leon S. Kennedy si mette in spalla un lanciarazzi e prende la mira, possiamo avvertire su di noi tutta la vulnerabilità che Mikami vuole imporci di sentire. A proposito di controlli, abbandonata la classica impostazione relativa al personaggio piuttosto che alla telecamera, il remake propone i consueti schemi che abbiamo già visto nel 2 e nel 3, perciò se abbiamo già vissuto tali esperienze sappiamo cosa attenderci, con una certa pesantezza diffusa nella versione Xbox Series che rende quest’ultima leggermente più intorpidita rispetto all’analogo in esecuzione su PlayStation 4 o 5.
Mentre entrambe le console Sony e Microsoft dell’attuale generazione sfruttano il rendering a scacchiera per le immagini in 4K, l’abbondante post-elaborazione rende difficile stabilire con accuratezza l’esatto quantitativo di pixel adoperati, ma a occhio Series X si avvicina molto di più al 4K nativo, mentre le immagini leggermente più morbide su PS5 sembrano suggerire una risoluzione interna di poco inferiore. Di contro, benché la versione Xbox sembri disporre di una nitidezza e una fedeltà grafica maggiore rispetto alla console Sony, con texture e contorni molto più definiti, quest’ultima presenta un certo vantaggio prestazionale in qualsiasi modalità, come se gli sviluppatori abbiano scelto di privilegiare la resa estetica sulla prima e le performance generali sulla seconda, ma sono certo che buona parte di queste differenze verranno pareggiate con il rilascio di qualche patch correttiva subito dopo il lancio. Ad ogni modo, viste pure le notevoli richieste hardware, gli utenti PC possono beneficiare del meglio dei due mondi grazie a texture decisamente migliori, applicazione di ray tracing con riflessi più distinti, maggiore meticolosità in termini di occlusione ambientale ed una differente applicazione dell’anti aliasing temporale, pur non essendo del tutto esente da qualche calo improvviso di frame. In definitiva, nessuna piattaforma può vantare un rendimento impeccabile, il valore oggettivo del lavoro di ricostruzione svolto riesce a compensare qualsivoglia debito tecnico che l’implementazione si porta dietro, ed a renderlo tutto sommato tollerabile.
La gente qui è impazzita
Chiusa questa doverosa parentesi, torniamo all’essenza nuda e cruda di Resident Evil 4 che, per quanto abbia eliminato gran parte di ciò che si amava dei suoi predecessori, suscita ancora un identico sentimento di claustrofobia che attanaglia la gola durante gli scontri. Potremo trovarci in ambienti più aperti rispetto al passato, ma il nostro campo visivo, e di conseguenza la mira, resta ancora limitato. È un approccio contro il quale i giocatori moderni, abituati ad una maggiore libertà di controllo, hanno spesso reagito con rabbia: basti pensare alle celebri bande nere di The Evil Within, non a caso sempre di Mikami, rivelatesi talmente oppressive per i giocatori che questi ultimi hanno chiesto a gran voce la possibilità di rimuoverle. Missione compiuta, insomma. Tuttavia, non si tratta semplicemente di un mutamento nei gusti del pubblico o di tendenze emergenti nel campo del game design, perché è anche una questione di differenze tematiche. Il pubblico tradizionale è più propenso al realismo, che ora si estende anche al fantasy: il successo di Game of Thrones, per esempio, la dice lunga sul nostro desiderio che qualsiasi opera di narrativa che si diletti con il soprannaturale o l’ultraterreno rifletta in qualche modo le preoccupazioni del mondo contemporaneo. L’intrattenimento pulpeggiante di Resident Evil 4 non viene più apprezzato dai gastronomi di tutto il mondo e riflette il cambio di rotta dell’horror cinematografico, irrimediabilmente influenzato dall’ascesa del found-footage e del torture porn, che da allora ha generato una serie di produzioni molto lontane dalla vecchia concezione di cinema dell’orrore: nel clima attuale, qualcosa di tanto pacchiano come il survival horror di Capcom è il tipo di passatismo che fa sudare freddo i finanziatori.
Tutto ciò avrebbe scarsa importanza se questo tipo di esperienze interattive fossero ancora considerate economicamente redditizie. Ma parte del motivo per cui Resident Evil 4 occupa un posto unico nella storia del medium è che adesso la realizzazione di un gioco single player di 20 ore, all’interno delle quali trovano spazio un numero enorme di meccaniche create su misura, viene reputato un suicidio commerciale. Durante la sesta generazione di console, Capcom si trovava in una posizione in cui poteva non solo assecondare i desideri di Mikami per incorporare centinaia di risorse e sistemi individuali in una campagna dal ritmo e dalla varietà impareggiabili, ma anche rinunciare a due anni di sviluppo su una versione molto diversa del gioco onde facilitare questa sua nuova, incredibile visione. Ora, il mercato non ha più spazio per simili capricci. L’ascesa dei titoli open world è una testimonianza non solo di quanto questi vengono apprezzati dai giocatori, ma anche della sensibilità degli editori nei confronti della loro efficienza finanziaria: se i giochi sandbox sembrano spesso dei copia e incolla indistinguibili, è perché il design procedurale e altre tecniche odierne consentono agli sviluppatori di riempire spazi più ampi con contenuti riciclati. Se una meccanica di base è abbastanza gratificante, la maggior parte degli utenti sarà lieta di accettare che venga ripetuta ad libitum. Ma, mentre questi giochi ci invitano ad abbracciare il comfort e la familiarità della routine, la bellezza di Resident Evil 4 risiede nell’esatto opposto: le sequenze di cecchinaggio si susseguono alla ponderata risoluzione di enigmi, con una brevissima pausa prima di un assedio o di una battaglia contro i boss. Non tutte sono uguali, ma ognuna è unica, e così ci ritroveremo ad arpionare una ciclopica mostruosità anfibia nel bel mezzo di un torbido lago, a schivare i potenti attacchi di un bruto grosso come un palazzo e ad affrontare un agile mutante appeso alle travi di un fienile in fiamme. È difficile pensare ad un altro gioco che cerchi di variare tanto spesso il proprio ritmo, di sorprendere il giocatore con qualcosa di nuovo ed eccitante dietro ogni angolo, che si tratti di un orribile rantolo che preannuncia l’arrivo di una creatura che può essere affrontata solo con l’ausilio della visione termica, o di scossoni improvvisi come l’aggressione del nemico fiammeggiante ribattezzato con tanto affetto “uomo forno”.
Giorno fortunato
Persino nelle sue sequenze meno celebri, il gioco si rifiuta di lasciare che i giocatori si ambientino, come nel momento in cui un colpo alla testa non riesce a fermare l’avanzata di un abitante del villaggio, provocando invece l’emergere di un parassita che si contorce dal suo collo. È una sorprendente sovversione di un punto fermo della serie: puntare al cranio è un modo essenziale per conservare le munizioni. Nella fattispecie, queste ultime non sono mai un vero problema, anche se i giocatori più audaci possono risparmiare tempo e proiettili prendendo di mira gli arti, lasciando i nemici vulnerabili a un calcio o a un suplex, anche se gambizzare un cultista diventa un’impresa quando stringe uno scudo di legno. Potreste preferire una o due armi in particolare, ma il design degli scontri vi costringerà a rinfrescare regolarmente le vostre tattiche. Il rifacimento enfatizza ulteriormente questo punto anche per i veterani, poiché l’aggiunta di miriadi di variazioni sui passaggi, che in tanti potrebbero aver imparato a memoria dopo aver giocato all’infinito l’originale, ci costringono a tenere gli occhi aperti in qualunque circostanza: provate ad avvicinarvi alla porta settentrionale del villaggio per piazzare qualche colpo in testa al Dr. Salvador da una distanza di sicurezza e capirete subito cosa intendo. La stessa Capcom ha cercato più volte di riconquistarne la magia, invano: Ashley, la figlia del Presidente, non si è rivelata l’ostacolo che molti temevano; quando non è un’alleata piena di risorse, è abbastanza intelligente da mettersi al riparo, mentre la Sheva Alomar di Resident Evil 5 non può fare a meno di entrare spesso nel campo visivo del compagno Chris Redfield o di finire tra le braccia di un avversario infetto. Resident Evil 6 ha visto il ritorno di Leon, ma ne ha limitato il ruolo in una campagna che lasciava intendere uno scarso contributo del reparto di controllo qualità. Lo spin off Resident Evil: Umbrella Corps, invece, suggerisce che l’editore non abbia semplicemente capito cosa ha reso il villaggio di El Pueblo così iconico, riproponendolo come banale mappa di un generico e mediocre sparatutto online.
Le mie aspettative potrebbero pertanto essere inadeguate. Con il trascorrere del tempo, ho maturato l’impressione sempre più forte che Resident Evil 4 sia stata una miracolosa pentola d’oro in fondo all’arcobaleno, una perfetta confluenza di tempismo e talento che non potrà mai essere ricreata. Un regista all’apice delle sue capacità creative, alla guida di un team con una significativa esperienza di design e di genere, supportato da un editore in grado di rischiare e di spendere molto per sperimentare sulle formule consolidate, e da un bacino di utenza ricettivo e disposto ad accettare un gioco lineare che offre spazio sufficiente per l’improvvisazione. Magari non era tutto ciò che i giochi potevano essere, ma quel che erano e che non sarebbero mai più stati. All’epoca, in pochi avrebbero potuto prevedere che il termine della sesta generazione di console avrebbe rappresentato l’inizio di un’era di dominio occidentale, e che lo status del Giappone come superpotenza videoludica sarebbe presto finito. Può darsi che non si trattasse tanto della forma delle cose a venire, quanto del canto del cigno di un’epoca, un gioco che invitava gli altri a raggiungerlo e superarlo dalla vetta che era riuscito a raggiungere, sapendo che gli altri non possedevano le competenze o le risorse per farlo. E parte di ciò che rende Resident Evil 4 così entusiasmante ancora oggi è la consapevolezza che nessuno è stato in grado di seguire le sue orme: si può intravedere qualcosa della creatività, della complessità e delle dinamiche tra preda e cacciatore che lo caratterizzano nei lavori di FromSoftware, ma giochi come Bloodborne e Dark Souls sono in definitiva molto diversi per atmosfera e intensità. A distanza di tanti anni, è arrivato il momento di accettare il fatto che forse non vedremo mai più nulla di simile a Resident Evil 4. Ma, in fin dei conti, va bene così: la magnum opus di Mikami può ancora rivendicare lo scettro di miglior survival horror di tutti i tempi. Come dimostra splendidamente il suo remake, per fortuna abbiamo ancora Resident Evil 4.
Piattaforme: PC, PlayStation 4, PlayStation 5, Xbox Series X|S
Sviluppatore: Capcom
Publisher: Capcom
Data di uscita: 24 marzo 2023
Persino in un’epoca di vasti universi esplorabili, la narrativa lineare di Resident Evil 4 avrà sempre la sua fortissima ragion d’essere. Come un platform o un action adventure degli anni ‘80, ti insegna le sue regole a poco a poco, mette alla prova ciò che hai appreso e poi sfida le tue competenze scagliandoti contro creature sempre più mostruose e improbabili. Le possibilità insite nei suoi spazi fetidi ed estenuanti sono limitate, ma sono anche quelle che ti spingono a proseguire. Una delle cose più belle dei videogiochi è la sensazione di essere un tutt’uno con un insieme di meccaniche difficili, di poter affrontare le sfide come fossero opportunità e di maturare la padronanza di uno sparuto ventaglio di opzioni. Il survival horror firmato Capcom ci ricorda che i singoli istanti, composti da scontri calibrati alla perfezione, brevi sequenze con scene d’azione contenute e un’eccellente narrazione ambientale, valgono molti chilometri quadrati di terreno calpestabile. A volte, basta solo inspirare, espirare e lasciarsi trasportare dal ritmo di gioco.