Sono trascorsi poco più di sei anni da quando Breath of the Wild ha fatto la sua comparsa in mezzo a noi, sconvolgendo il franchise cui appartiene, e il mondo videoludico in generale, con una straordinaria eco che riverbera ancora oggi. Non ho vissuto il suo arrivo in prima persona poiché, all’epoca, l’acquisto di un Nintendo Switch era ancora in fondo alla mia personale lista delle priorità, tuttavia ricordo bene il tono in cui, alla vigilia dell’edizione 2016 dell’E3, la stampa specializzata commentava la decisione di Nintendo di presentarsi a Los Angeles con nient’altro che l’ultimo capitolo di The Legend of Zelda. Gli epiteti più gentili utilizzati per descrivere il gesto della multinazionale di Kyoto spaziavano da “arrogante” a “sprovveduta”, ma la diffidenza era comprensibile perché il periodo che stava attraversando non era dei più rosei: Wii U si era rivelato un fallimento catastrofico, il 3DS iniziava a mostrare la sua età e l’annuncio di una nuova macchina in cantiere, nome in codice NX, non era stato seguito da nulla di concreto. Insomma, le critiche nei confronti delle sue decisioni commerciali non mancavano di certo, eppure… eppure quel singolo gioco riuscì incontrovertibilmente a rubare la scena della manifestazione californiana tanto che, nel corso dell’ultima giornata di eventi, una folla di fan si precipitò allo stand di Nintendo nel tentativo di entrare prima che la fila si chiudesse. Il momento cui ebbi modo di assistere non meritò altro aggettivo che storico, e quello che seguì fu la rinascita di Nintendo, guidata da uno Zelda che avrebbe trasformato la serie da una delle più amate del genere in una delle più celebrate dell’intero settore, preludio perfetto a ciò che oggi viene ulteriormente confermato da Tears of the Kingdom.
The Legend of Zelda Tears of the Kingdom: Link… vienimi a cercare…
The Legend of Zelda è sempre stata una serie importante, tale da motivare le persone ad acquistare le piattaforme Nintendo per giocarci, nonché ad alimentare il lucroso giro d’affari imperniato su gadget, modellini, colonne sonore e persino concerti dedicati alle magnifiche colonne sonore. Nondimeno, quando si tratta di numeri concreti, la sua disomogeneità è tristemente nota. Prima di Breath of the Wild, il capitolo di Zelda più venduto era Twilight Princess del 2006, attestatosi su poco meno di 9 milioni di unità combinate per Wii e GameCube. Non si tratta certo di un risultato da poco, ma nemmeno di qualcosa capace di impensierire le vette dei titoli più popolari prodotti da Nintendo: tanto per fare un paragone, Mario Kart Wii ha registrato più di 37 milioni di copie e New Super Mario Bros. Wii ha oltrepassato le 30. Zelda ha la cattiva abitudine di perdere più della metà dei suoi giocatori tra un’uscita e l’altra: Twilight Princess è stato seguito da Skyward Sword, uscito su Wii nel 2011, che non ha raggiunto nemmeno i 4 milioni di copie, seguendo uno schema che ormai possiamo definire familiare. Ocarina of Time è stato un grande successo su N64, arrivando a piazzare 7.6 milioni di copie, ma il suo seguito, Majora’s Mask, ne ha vendute meno della metà (3.4 milioni). Il primissimo The Legend of Zelda per NES raggiunse i 6.5 milioni mentre il sequel, The Adventure of Link, ne ottenne 4.4 milioni. Non è insolito vedere le vendite dei giochi Nintendo fluttuare da una piattaforma all’altra, soprattutto perché queste ultime variano enormemente in termini di popolarità. Infatti, sebbene Wind Waker abbia piazzato 3 milioni di copie in meno rispetto a Ocarina of Time, tale risultato era comunque rappresentativo di oltre il 20% della base installata di GameCube, mentre il successo di Ocarina of Time in proporzione è stato solo marginale, essendo riuscito ad attirare il 23% dei possessori di N64. Ma i ranghi di appassionati hanno la tendenza ad assottigliarsi anche quando si considerano gli episodi pubblicati sulla medesima piattaforma e così, quando si parla di franchise Nintendo di maggior successo, Zelda va a piazzarsi saldamente dietro Mario, Mario Kart, Pokémon, Smash Bros. e Animal Crossing.
Poi è arrivato Breath of the Wild. Con più di 30 milioni di copie vendute, la stragrande maggioranza delle quali su Nintendo Switch, il gioco scavalca in un sol colpo Pokémon e Mario e raggiunge a pari merito Super Smash Bros. come notorietà. Un po’ tutti i franchise Nintendo sono cresciuti in modo sostanziale durante la generazione Switch, ma l’esplosione di Zelda è stata quella più sbalorditiva, con le vendite di Breath of the Wild superiori del 240% rispetto al precedente record stabilito da Twilight Princess. Il debutto ha senza dubbio inciso moltissimo: il gioco ha ricevuto recensioni estremamente positive e la campagna di marketing, compresa l’epica presentazione all’E3, ha suscitato un entusiasmo incontenibile. È stato anche l’unico titolo di lancio degno di nota per Nintendo Switch, capace di attirare un interesse significativamente maggiore rispetto a quello riscosso per Wii U ai tempi. Come è noto, Breath of the Wild ha registrato una percentuale di acquisto del 100% su Switch e, in alcune regioni, quest’ultima versione ha addirittura superato le vendite della console stessa. Certo, un lancio curato ed efficace è sempre una gran bella cosa, ma non è comunque il fattore che riesce a vendere decine di milioni di unità: tutti i capitoli di Zelda hanno sempre beneficiato di recensioni entusiastiche e di cospicue acquisizioni al debutto, salvo perdere terreno sulla lunga distanza come accaduto per Wind Waker o Skyward Sword che, pur avendo goduto di una percentuale di diffusione altissima una volta raggiunti gli scaffali dei negozi, non sono riusciti a preservare il medesimo slancio nei mesi e negli anni a seguire. Breath of the Wild invece ha continuato a vendere e prosegue tuttora a farlo.
Nell’ultimo rapporto finanziario, Nintendo ha rivelato che il gioco ha venduto altri 2.4 milioni di copie nei nove mesi conclusi lo scorso 31 dicembre, a più di cinque anni dalla sua uscita, ed oggi che ne sono passati sei, come anticipato in apertura, possiamo trovarlo ancora ben saldo nelle prime venti posizioni delle classifiche di tutto il mondo. Il gameplay emergente di Breath of the Wild ne ha guidato le vendite, e la chiave di questo cambiamento è stato il gioco stesso: a differenza dei predecessori, la sua struttura completamente libera ha permesso ai giocatori di esplorare e affrontare le sfide come meglio credevano, grazie ad una nutrita serie di meccaniche rivoluzionarie (almeno per la serie) a loro disposizione. Questo tipo di giocabilità evoluta ha generato migliaia di video su YouTube, articoli, streaming e filmati di giocatori che fanno cose folli. Mentre sempre più persone si sono avvicinate a Nintendo Switch e hanno iniziato a cercare titoli da acquistare, Zelda è rimasto uno dei più discussi, condivisi e consigliati. Con il qui presente Tears of the Kingdom, Nintendo ha deciso di sfidare se stessa e dimostrare al mondo che, seppure i dati abbiano delineato una predisposizione al ribasso per i sequel pubblicati sulla stessa console e la console ibrida, con l’avvicinarsi del settimo anno di vita, stia iniziando a rallentare, il naturale sviluppo delle ottime fondamenta gettate da Breath of the Wild potrebbe rivelarsi una scelta vincente e stimolare un trasporto addirittura maggiore in tutti i suoi utenti. E poi, diciamoci la verità, anche se Tears of the Kingdom finisse per seguire le orme di Majora’s Mask o Skyward Sword e vendere meno della metà del suo antesignano, si attesterebbe comunque quale secondo miglior Zelda di sempre in termini di tiratura.
Osserva attentamente l’avvento dell’autentico re
Nella speranza di non avervi annoiati con la mia lunghissima prefazione, redatta allo scopo di fornire un riepilogo in merito all’enorme portata del titolo di cui sto per parlarvi, siamo perciò giunti all’alba di uno dei più grandi eventi videoludici della storia recente, e con ogni probabilità di tutti i tempi, che si svolge su una console già in larga parte denigrata al momento del suo debutto a causa dell’hardware poco performante che, in teoria, non avrebbe dovuto consentirle di riprodurre un’avventura tanto ricca, vasta e articolata, un po’ come per il celebre aneddoto del calabrone. E dunque, per i milioni di giocatori che possono finalmente mettere le mani su Tears of the Kingdom, il numero di pixel e poligoni sullo schermo è molto meno importante di ciò che rappresentano e la lezione che Nintendo riesce ad impartire ancora una volta è sempre la stessa: potete inseguire frame rate, risoluzioni, profondità di campo e ray-tracing quanto volete, ma è il contenuto ciò che fa davvero la differenza! Tears of the Kingdom arriva in un periodo obnubilato dalle strabilianti novità introdotte da Unreal Engine 5, dall’illuminazione dinamica globale al rendering particellare, passando per le incredibili migliorie del loro MetaHuman, il framework dedicato alla creazione di modelli poligonali verosimili, capaci di confezionare titoli talmente realistici da spingere molti ad accusare gli sviluppatori di uno sparatutto in prima persona di aver utilizzato delle riprese dal vivo per il loro trailer. Ma nessuno muoverà mai accuse verso l’ultimo capitolo di Zelda per eccesso di fotorealismo: la sua palette di colori sbiaditi e l’aspetto fortemente stilizzato, quasi da film di animazione, sono l’esatto opposto di un FPS tridimensionale che punta ad imitare la realtà, e gran parte del lavoro è stato svolto in tal senso per consentirgli di girare sull’hardware limitato di Switch. Ricordo che l’ibrida Nintendo è dotata di un chipset Nvidia Tegra X1 custom, prodotto nel 2015, di appena 4 GB di RAM e di una memoria flash interna da 32 GB (64 GB nella versione OLED), può visualizzare 720p fino a 60 fotogrammi al secondo in modalità portatile e 1080p fino a 60 fps se inserita nel dock. E questo è quanto: anche se le prestazioni grafiche effettive sono parecchio ridotte, Switch non è in grado di riprodurre giochi in 4K, nemmeno tramite upscaling, mentre il Sacro Graal della frequenza a 120 fps resta un sogno mostruosamente proibito. Inoltre, i 4 GB di RAM gravano come un macigno sui tempi di caricamento, in particolar modo per i titoli letti via cartuccia. Insomma, il nostro Switch sulla carta non avrebbe mai potuto smerciare più di 120 milioni di unità, posizionandosi alle spalle di Playstation 2 e Nintendo DS nella classifica delle console più vendute di tutti i tempi. Ciò nonostante è andata proprio così, perché nel corso degli anni Nintendo ha compreso, anche a sue spese, che il fattore discriminante fondamentale nel nostro campo resta la pura e semplice giocabilità.
Anche oggi esistono titoli tecnologicamente più validi di Tears of the Kingdom, ma il team di sviluppo capitanato da Eiji Aonuma e Hidemaro Fujibayashi ha saputo spremere di nuovo la console fino in fondo per creare un’avventura che potesse eguagliare il capitolo precedente e, sotto diversi punti di vista, persino sorpassarlo. Punto focale dell’esperienza resta, naturalmente, il fatto che stiamo parlando di un gioco completamente open-world nel senso più puro del termine: se riesci a scorgere una struttura di qualsiasi tipo, puoi scalarla; se intravedi una formazione rocciosa all’orizzonte, puoi raggiungerla in qualche modo; se un oggetto non è inchiodato a terra, e anche in questo caso bisogna vedere come è inchiodato, puoi raccoglierlo e manipolarlo a tuo piacimento. La trama portante, che stavolta si interseca con le vicende inscenate in tempo reale e non viene raccontata soltanto come un gigantesco flashback, è profonda e complessa, radicata nello studio dei miti e nella cosmogonia di questa particolare declinazione del mondo di Hyrule. Sarebbe un torto enorme svelare anche un singolo passaggio della stessa perché, per sua natura, è stata strutturata per rispondere ad alcuni interrogativi e sollevarne altri nel processo, in maniera tale da stimolare la curiosità di chi vi si approccia, ma la sua comprensibile linearità è il perfetto contraltare alla libertà che ci viene concessa di deviare dalla stessa in qualsiasi momento e dedicarci alle numerose missioni secondarie, oppure semplicemente perderci tra le viste mozzafiato che compongono lo smisurato panorama. E appare subito chiaro quanto Nintendo EPD abbia riflettuto su questo panorama, aggiungendo strati di autentica progettazione geometrica. Alcuni giochi open-world si basano su paesaggi generati proceduralmente, ma gli sviluppatori hanno aggiunto qui un ulteriore livello di autentica progettazione geometrica, riprendendo il medesimo concetto di Breath of the Wild: quest’ultimo infatti adoperava la cosiddetta “regola del triangolo”, che consiste nell’utilizzare costruzioni triangolari all’interno del mondo di gioco per mantenere desta l’attenzione dei giocatori mentre erano impegnati ad esplorare. Il ricorso ai triangoli persegue due obiettivi, ossia offrire agli utenti la possibilità di scegliere se passare direttamente sopra l’ostacolo o aggirarlo, e oscurarne la visuale in modo che i designer possano sfruttarli per sorprenderli e spingerli a chiedersi cosa troveranno dall’altra parte, per non parlare di quanto riducono la pressione sul povero chipset grafico di Switch. E così, proprio come accaduto al predecessore, non è difficile immaginare per quanti anni dopo il lancio la gente continuerà a scoprire nuovi modi per giocare, soprattutto considerato che è possibile concludere la storia principale e ritrovarsi a neanche il 40% della percentuale di completamento globale. Avendoci speso personalmente un abbondante centinaio di ore, sarebbe facile per me sproloquiare altre migliaia di parole sulle meraviglie che ho avuto modo di contemplare, ma non è questo il punto. Il vero nocciolo del discorso è che Nintendo si è concentrata ancora una volta sull’esperienza di gioco, consentendo di nuovo al suo calabrone a forma di console di spiccare il volo malgrado la scienza non lo ritenga aerodinamicamente adatto allo scopo.
The Legend of Zelda Tears of the Kingdom: sarà lui la nostra ultima speranza
Chiunque abbia giocato o rigiocato a Breath of the Wild in vista di Tears of the Kingdom si troverà a suo agio con la maggior parte dei comandi del gioco e con gli aspetti di base dell’esplorazione: consumare le barre della resistenza per correre, arrampicarsi e planare risulterà confortevole e familiare, con buona pace dei detrattori. Ma è proprio quando si iniziano a usare davvero le nuove abilità di Link per interagire con le cose che lo circondano (mostri, armi, cespugli di fiori bomba) che Tears of the Kingdom si rivela un gioco tecnicamente molto più complesso e fantasioso del suo predecessore, il che è tutto dire. Sebbene fosse possibile avvalersi della Tavoletta Sheikah dell’originale per sfoderare ogni sorta di espediente, Breath of the Wild non dava l’impressione di essere stato progettato con la volontà di spingere i giocatori a utilizzare il gadget al massimo del suo potenziale. In questo caso invece, per quanto alcuni dei nuovi poteri di cui Link può servirsi, come Ultramano e Reverto, sembrino in apparenza delle banali versioni potenziate di Kalamitron e Stasys, ben presto capiremo che il gioco ci incoraggia attivamente non solo a sfruttarli con inusitata frequenza, ma anche a pensare a tutti i modi diversi in cui potremmo potenzialmente metterli in pratica per risolvere enigmi e uccidere mostri. Mentre Stasys ci conferiva il potere di congelare i nemici e gli oggetti nello spazio e di lanciarli dopo averli caricati di energia cinetica, Reverto stravolge le carte in tavola rimandando il bersaglio all’indietro lungo la traiettoria che aveva iniziato a percorrere, e schiantandolo contro qualsiasi cosa si trovi sulla sua strada. Kalamitron permetteva di individuare e manipolare oggetti metallici come blocchi, spade e scrigni di lusso, mentre con l’Ultramano Link può spostare qualsiasi elemento interattivo e collegarlo con un altro per creare… beh, qualsiasi cosa si possa ricavare dai vecchi rottami e dalle nuove tecnologie che si trovano in giro per Hyrule, tutte destinate a essere manipolate per fini “ingegneristici”. Tra gli altri poteri di cui disponiamo, Ascensus, una rilettura del Vortice di Revali che ci trasporta verso l’alto e permette di attraversare superfici solide, è il più semplice in quanto progettato per farci riflettere in maniera più “verticale” sugli spostamenti ma, insieme all’Ultramano e al Compositor, l’abilità studiata per fondere due oggetti e crearne uno più forte e resistente, costituisce l’espressione pragmatica di quel concetto di improvvisazione che Nintendo ha descritto come parte essenziale dell’identità del titolo, e ve ne accorgerete quando i combattimenti stimoleranno trovate incredibilmente perspicaci. Ci sono insomma molteplici opportunità per utilizzare tutte le rune durante l’esplorazione terrestre, ma è in cielo, tra le nuvole e le isole, che si inizia a capire quanto l’Ultramano sia parte integrante dell’approccio all’interazione e alla risoluzione di rompicapi.
Oltre alle tante risorse naturali sparse in Tears of the Kingdom, ce ne sono anche di meccaniche come razzi, ventilatori e stufe portatili che si possono trovare e, in alcuni casi, creare da soli utilizzando un nuovo materiale chiamato Zonanio. La nuova classe di nemici robotici del gioco, che elargiscono Zonanio dopo averli distrutti, è tanto interessante quanto i minacciosi Guardiani di Breath of the Wild, che rilasciavano le parti necessarie per creare potenti frecce e potenziare l’armatura. Ma l’enorme numero di dispositivi Zonau, la misteriosa tribù preistorica di Hyrule sulle cui origini avremo modo di soffermarci a più riprese, che si possono creare con lo Zonanio eclissa la manciata di impieghi che potevano trovare le Viti ed i Nuclei Ancestrali, tutti strumenti peraltro accuratamente progettati tenendo conto delle possibili sperimentazioni ludiche. Quali congegni e veicoli diventeranno i nostri preferiti dipende da quanto tempo dedicheremo al potenziamento delle Batterie di energia Zonau, un nuovo oggetto che immagazzina le cariche energetiche necessarie per alimentare i costrutti fabbricati da noi. Come Link ha bisogno di resistenza per aggrapparsi alle cose, così anche i suoi dispositivi necessitano di una carica adeguata per funzionare. Ma, a differenza della resistenza del nostro eroe, che si ripristina velocemente quando è a riposo, la carica della batteria richiede tempi più lunghi per accumularsi, il che costringe a pensare strategicamente al tipo di oggetti che vogliamo costruire e al modo in cui intendiamo utilizzarli. Nel grande schema dei poteri specifici di The Legend of Zelda, possiamo considerare la sperimentazione con l’Ultramano di Tears of the Kingdom uno dei tentativi più audaci di Nintendo di sfidare le persone a ripensare a cosa può essere davvero uno Zelda: il fascino di librarci con Link tra i cieli di Hyrule con alianti e mongolfiere resta innegabile, ma ciò che mi ha davvero sorpreso, è stato rendermi conto che, quando ad esempio fondiamo un razzo o un carrello al nostro scudo, quest’ultimo diventa un nuovo mezzo di locomozione capace di spalancare scenari completamente inediti, idee talmente assurde che però possiedono la giusta dose di senso per essere sia vantaggiose che ricreative. E poi, oltre al ritorno di tanti elementi comuni del precedente episodio, il team di sviluppo ha reintrodotto una serie di zone che riprendono lo spirito dei tradizionali dungeon di The Legend of Zelda. Beninteso, non aspettatevi schemi chiusi divisi in stanze circoscritte da sbloccare trovando chiavi o premendo interruttori: nella sostanza sono basati sulle missioni legate alle Bestie Divine che abbiamo già affrontato in Breath of The Wild, ma con una connotazione molto più estesa, un forte tema elementale e, soprattutto, una notevole centralità sull’impiego delle abilità esclusive che rimangono poi in nostro possesso una volta completati gli stessi. La struttura resta sempre molto aperta ed i puzzle possono essere affrontati in qualsiasi ordine, tuttavia sono certo che per i più nostalgici sia un notevole passo avanti verso la giusta direzione.
Finalmente so cosa devo fare!
Ma quindi come gira questo Tears of the Kingdom? Senza nascondermi dietro a un dito, nelle migliori condizioni possibili le prestazioni si mantengono ancorate ai promessi 30 fps, persino in modalità portatile, tuttavia i cali inizieranno a farsi tangibili non appena metteremo a frutto i poteri di creazione per fabbricare impianti tanto fantasiosi quanto complessi, uno scotto comunque accettabile da pagare per la libertà che ci viene concessa. Esiste un termine i giochi di questo tipo: immersive-sim, o simulazione immersiva. Come la maggior parte delle etichette, la sua definizione esatta trova interpretazioni discordanti ma, per riassumerla nel modo più conciso possibile, in questo particolare sottogenere rientrano tutti quei giochi che cercano di dire “sì” al giocatore il più spesso possibile, una filosofia che viene applicata ancor prima di scrivere una singola riga di codice. E, anche se Tears of the Kingdom è stato concepito come uno dei più grandi simulatori immersivi di sempre, il vero pioniere di un simile approccio è stato Looking Glass Studios, in precedenza Blue Sky Productions, una software fondata nel 1990 da un gruppo di sviluppatori che percepivano nei videogiochi l’opportunità di creare mondi tridimensionali guidati da un certo tipo di narrazione. La volontà di Paul Neurath, che abbandonò Origin Systems nel 1989 per mettersi in proprio, era di responsabilizzare il giocatore e allontanarsi dall’idea di videogame come esperienza lineare, un pensiero che portò l’azienda a pubblicare titoli come Ultima Underworld: The Stygian Abyss, System Shock e il suo seguito e Thief: The Dark Project. Come Breath of the Wild e Tears of the Kingdom, le loro produzioni offrivano agli utenti numerosi mezzi per risolvere gli enigmi o eliminare i nemici, anche se in misura minore rispetto a quanto è possibile fare oggigiorno. Malgrado la sua sensibilità davvero all’avanguardia, Looking Glass Studios chiuse i battenti nel 2000 in seguito alle difficoltà incontrate con una serie di case editrici. Tuttavia, molti dei suoi dipendenti hanno continuato a creare simulazioni immersive, o almeno a mettere a frutto le competenze e l’esperienza istituzionale acquisite nel tempo: Bioshock, Guitar Hero e persino la stessa Xbox sono tutti nati da ex progettisti di Looking Glass. Tralasciando il disastroso Redfall, Arkane Studios è forse il portabandiera più importante degli immersive-sim, con giochi come Dishonored, Prey e Deathloop. Tears of the Kingdom non è certo un’anomalia nel regno dei giochi AAA moderni che attingono alla scuola di pensiero della simulazione immersiva, ma è emozionante vedere Nintendo, un’azienda nota soprattutto per i giochi estremamente curati che di solito non permettono di uscire troppo dal seminato, elevare a potenza quello che considero l’elemento più eccitante del design di Breath of the Wild, ovvero la propensione a concedere al giocatore di infrangere le regole. E state pur certi che, in questa specifica circostanza, di modi per piegare le norme del mondo di Zelda al vostro volere ne troverete in abbondanza.
Piattaforme: Nintendo Switch
Sviluppatore: Nintendo EPD
Publisher: Nintendo
Laddove Tears of the Kingdom riprende meccaniche da altri capisaldi del settore, Breath of the Wild incluso, le riesce ad esaltare e migliorare; laddove ne introduce di nuove, ci lascia un sorriso ebete stampato in volto perché nessuno ci aveva pensato prima. Questo secondo capitolo “selvaggio” di Zelda è l’incarnazione di un processo di sviluppo condotto con tutti i criteri del caso, e molto probabilmente l’esperienza videoludica più straordinaria che proverete quest’anno. Ritengo che la sua semplice esistenza non sia solo il segnale che The Legend of Zelda si è finalmente evoluto e ha superato in tutto e per tutto la struttura a cui è rimasto appoggiato per tanto tempo, ma pure che Nintendo voglia considerare il suo pubblico come persone intelligenti, capaci e creative tanto quanto gli autori, i designer, i programmatori e tutti coloro che ci hanno lavorato. Tale consolidato rispetto ha prodotto qualcosa di grande, diverso ed emozionante anche se, in un mondo aperto e pieno di grandi cambiamenti, Tears of the Kingdom viene sempre ed inequivocabilmente percepito come uno Zelda, senza dubbio migliore di quanto avreste mai potuto immaginare.