Primo punto: Christopher Nolan sembra essere più a suo agio con la Storia che con le storie. O quantomeno, sembra riuscire a mantenere un livello maggiore di coesione e coerenza. Di fronte a Batman, pur riuscendo a restituire una versione personale del crociato incappucciato, si è spesso incartato di fronte ad autoimposte esigenze di realismo, rendendosi conto fuori tempo massimo che dopotutto non è un male se un film tratto dai fumetti assomiglia un po’ a un fumetto anche nelle dinamiche. Con Interstellar si è mosso al confine tra la scienza e la fantascienza, con uno stile magniloquente ma una richiesta forse esagerata di sospensione dell’incredulità, per i toni che presentava, e cedendo spesso alla lacrima facile. Con Tenet ha giocato la carta del “me la canto e me la suono da solo”, proponendo un film sci-fi “da sentire” più che da capire che però ha lasciato perplessi molti spettatori, certo non aiutato dalla scarsa affluenza alle sale dovuta alla coda del periodo pandemico.
Negli ultimi anni, però, aveva già dimostrato di saper – ancora – gestire una vicenda realistica in partenza come quella dell’evacuazione di Dunkirk, lavorando su distinti piani temporali e anticipando, dopotutto e in maniera anche meno ridondante, il tema della relatività del tempo che poi avrebbe ripreso proprio in Tenet, giocando con i suoni – cosa che come vedremo si ripete anche in Oppenheimer – e mettendosi al servizio della narrazione più che sovrastarla, con una insolita diligenza e molta più cura per i dettagli. È come se la responsabilità di trattare di vicende accadute nel nostro mondo lo mettesse in riga, e il suo cinema non può che guadagnarne.
Eppure, Oppenheimer non è un film particolarmente spettacolare. Di fatto, è un lungo dramma da camera che ruota attorno a un cuore esplosivo – letteralmente, trattasi della sequenza del test dell’atomica – che colpisce proprio perché arriva quando l’attenzione dello spettatore, messa a dura prova da diversi strati di dialoghi di natura etica, morale ma anche personale (Nolan non si risparmia niente: ci racconta perfino la crisi di coppia del protagonista) viene presa a schiaffi da un improvviso e inquietante bagliore.
IL SUONO DELLA MORTE
Qui diventa particolarmente importante la ricerca di Nolan e del suo staff sugli aspetti audibili della pellicola, un merito notevole, dato che troppo spesso ci si dimentica che il cinema non è soltanto immagine ma anche suono. Non parliamo soltanto della pregevole colonna sonora di Ludwig Goransson, che contrappunta elegantemente la lenta ma inesorabile trasformazione di uno scienziato in angelo della morte, ma proprio degli “effetti” del film, che nella scena clou sono particolarmente adatti a sottolineare l’impatto dell’esplosione proponendo il fragore molto tempo dopo la deflagrazione visiva. Probabilmente è una resa realistica – stavolta davvero – di quello che avviene quando esplode una bomba atomica, ma è anche un modo peculiare di usare il realismo che il cinema blockbuster dimentica troppo spesso.
BISOGNA PROPRIO VEDERLO IN SALA?
Altro merito insindacabile di Nolan è quello di sapersi vendere. Un po’ come James Cameron, già solo attraverso la sua firma e l’utilizzo di una serie di feature non necessarie ma sicuramente d’effetto, come le riprese in IMAX, Nolan riesce a convincere gli spettatori che i suoi film vadano visti assolutamente e rigorosamente al cinema, quasi come se la scelta di una visione casalinga mettesse lo spettatore in condizione di non poter nemmeno dire la sua sul film, come se non lo avesse visto. È una forma retorica molto comune al giorno d’oggi, perché le sale sono in difficoltà e quindi è chiaro – e noi siamo d’accordo, ci mancherebbe – che più gente va al cinema, meglio è.
Però c’è anche la verità dei fatti: Oppenheimer è un film di dialogo e recitazione – nemmeno bisogna troppo stare a sottolineare la bravura degli interpreti Cillian Murphy, Emily Blunt e Robert Downey Junior, finalmente disincastrato dall’armatura di Iron Man e libero di esprimere in altro modo il suo talento – è un film d’atmosfera e di grandi interrogativi, è un dramma sfumato e strutturato, un film sul rimorso e sulla responsabilità, un poema oscuro sui destini del mondo. E’ questo e molto altro… ma è anche un colosso di tre ore di difficile assimilazione e molto, molto, molto impegnativo, dove ogni sviluppo è di natura psicologica e, di fatto, non succede nulla se non, per citare ‘Il paradiso degli Orchi’, il fatto che esploda una bomba.
Va bene vederlo in sala. Soprattutto, come dicevamo, è importante vederlo con un buon impianto audio a supporto, ma non è da escludere che una visione più riflessiva e, magari, frammentata, quando il film sarà disponibile su piattaforma, ne favorisca l’assunzione, quindi se decidete di aspettare di vederlo a casa, non sentitevi troppo in colpa.
AUTOCENSURA O LIBERA INTERPRETAZIONE?
Uno degli aspetti più criticati della pellicola è stata la scelta di non mostrare nulla degli effetti della bomba, sorvolando sulle tragedie di Hiroshima e Nagasaki. Non è sbagliato, ma non si può nemmeno gridare così facilmente all’”autocensura”, dando per scontato che la scelta sia solo dettata da un’agiografica esigenza di ammorbidire le colpe del padre putativo della bomba. Dopotutto, è una storia che tutti conosciamo (o almeno si spera). Ci sono altre opere che svolgono questo compito, come lo straziante manga (e poi anime) Gen di Hiroshima, mentre qui si è voluto rendere l’atomica come un fantasma spaventoso che proietta la sua ombra – naturalmente a forma di fungo – su ieri e sull’oggi, lasciando interattivamente allo spettatore il compito di operare un giudizio.
BARBENHEIMER SI’ O NO?
Non si può chiudere una recensione a questo film senza citare almeno di sfuggita il casuale fenomeno del Barbenheimer, che lo ha visto uscire (negli USA) in contemporanea con il Barbie di Greta Gerwig, egualmente apprezzato da critica e – soprattutto – pubblico. I film sono andati entrambi molto bene, si racconta che molti abbiano scelto di vedere Oppenheimer perché non trovavano posto in sala per Barbie, quindi in sostanza, una (assurda) rivalità che ha fatto bene a entrambi, e ha particolarmente fatto parlare in questa estate dove molti film che sulla carta avrebbero dovuto essere dei successi si sono invece rivelati dei flop, dal quinto Indiana Jones a The Flash, passando – in maniera più moderata – per Transformers e Mission: Impossible. La verità, però, è probabilmente assai più semplice: il pubblico è stufo delle proprietà intellettuali reiterate all’infinito. I due film si occupavano di personaggi e storie nuove e mai viste al cinema, oltre a presentare entrambi – sebbene su campi totalmente diversi – una profondità tematica rilevante. La vera carta vincente è questa.
Lungo e angosciante, il film di Nolan sul padre dell’atomica vede il regista maggiormente a suo agio rispetto a quando si dedica a storie fantastiche. Evidentemente avere a che fare con la Storia con la S maiuscola lo responsabilizza. Certamente non priva di eleganza formale, la pellicola è comunque piuttosto impegnativa, trattandosi di un macrodramma basato principalmente sui dialoghi. Non sentitevi in colpa se preferite fruirne in maniera dilazionata, quando arriverà su piattaforma.